Postcards – The Good Soldier
Quello della band libanese Postcards è un sound che possiamo definire onirico. Nomen omen, dicevano gli antichi romani, e infatti il nome della band rivela già moltissimo del loro modo di fare musica.
Formata da Julia Sabra, Marwan Tohme, Rany Bechara e Pascal Semerdjian a Beirut, la band con ogni pezzo e già dal primo accordo trasporta chi li ascolta verso un ricordo lontano, un frammento, un’istantanea. Il loro genere oscilla tra l’indie e il folk, e presenta sicuramente anche influenze del dream pop. I loro sono racconti di un mondo un po’ sognante, ma non idilliaco anzi ben lontano dall’essere una realtà perfetta, solo dannatamente melanconico.
The Good Soldier è il loro secondo album, uscito il 3 gennaio 2020 (subito dopo partirono per un tour in Europa, interrottosi per le vicissitudini a tutti ben note). Si apre con il brano “Dead End”, caratterizzato da distorsori e un suono vicino al noise rock. Si sentono le influenze dei Pink Floyd. La voce vellutata e calda di Julia Sabra, quasi non si percepisce, ci arriva in lontananza come una eco, mentre i toni cupi e il suono persistente della chitarra elettrica richiamano atmosfere apocalittiche.
Come dopo una tempesta, torna la quiete (apparente) con “Fossilized”, dove la chitarra torna per la prima parte del brano a suonare gently – direbbero i Beatles – per poi concludersi con suoni più duri.
“I know the spiderwebs above me will soon cover me / Cover every wall and corner of this room / Is this the end of it all?“ canta Julia Sabra in “Spiderwebs”, dove i suoni si fanno decisamente più indie e ritmati.
Il brano che dà il titolo all’album ricorda una dolce ninna nanna, molto malinconica, in cui predomina certamente la voce suadente della cantante: “In a world with no heaven all is farewell / Say your goodbyes and maybe someday I’ll make you mine” con quel mine pronunciato a fil di voce, timidamente, come se non ci credesse più neanche lei in questa possibilità.
Si va verso tonalità più alternative in “Hunting Season” dove, a un orecchio attento, non sfugge che qui la batteria è più presente che in altri brani, dando un ritmo deciso al pezzo.
Non importa quale brano si senta di questo album, ogni pezzo è un mondo tutto suo, come se fosse ovattato, di nostalgia e sogni perduti.
L’album si conclude con “Little Lies”: apparentemente in opposizione al brano di apertura, il suono qui è molto più tranquillo, gli strumenti si sentono tutti distinti, il tempo è ben scandito e lo stesso giro di note si ripete a cadenza regolare. Non stupisce da un certo punto di vista, ma proprio questo aspetto dà al brano un’atmosfera anche qui apocalittica, come nel pezzo d’apertura, ma con mezzi diversi. Si potrebbe quindi dire che l’album sia circolare nella sua composizione.
Ascoltare i Postcards in generale, e questo album nello specifico, vuol dire sedersi davanti a un vecchio proiettore e vedere le istantanee di ricordi lontani, non più tangibili. Vuol dire abbandonarsi alla nostalgia e osservarla, come davanti lo scorrere di polaroid, o appunto di postcards.