Explosions in the Sky – The Rescue
Questa è la storia di un esercizio di stile riuscito. Un EP che gli Explosions in the Sky tirano fuori quasi come una scommessa: ritrovare forma e ispirazione dopo un estenuante tour, chiudendosi in studio con lo scopo di produrre, registrare e mixare un disco in soli otto giorni.
Il risultato di questo esperimento è The Rescue, che nel 2005 viene prodotto in un numero limitato di copie e distribuito dall’etichetta della band texana attraverso un sistema di abbonamento postale (numero 21 della collana Travels in constants dell’etichetta Temporary Residence, cui avevano già contribuito gruppi come Mogwai e Low). Un disco quindi – letteralmente – indirizzato a pochi, una specie di album segreto che conquista subito i fan della band e apre ad un nuovo seguito.
Gli Explosions in the Sky in quel momento godono già una fan base ben definita. A partire dal 1999 i quattro ragazzi di Austin hanno saputo scolpire, col sapiente uso di intricati arpeggi delle due chitarre, sospinte dalla sezione ritmica spesso marziale, scenari di rock strumentale che profuma di deserto e spazi immensi.
Del resto siamo alla fine degli anni ’90, un momento storico in cui si sta strutturando una produzione musicale, sotto il marchio del post-rock, che tende a preferire stratificazioni sonore alla forma-canzone; lunghi passaggi di chitarre noise sono ormai facilmente reperibili negli ascolti di un pubblico via via più ampio. Lo spettro è ampio: si va dai toni esoterici dei Sigur Rós, all’agitazione politico-artistica dei dischi dei Godspeed! You Black Emperor (la quota italiana rappresentata dai primi dischi degli emiliani Giardini di Mirò).
Ed ecco che diventa molto importante trovare una connotazione forte, una specificità. I primi dischi degli Explosions in the Sky avevano già funzionato in questo senso.
Nel 2005 era arrivata l’ora di uscire dalla zona di comfort, e per farlo non c’è nulla di meglio che imporsi dei limiti. Ogni pezzo in The Rescue è il frutto di una singola giornata in studio, senza possibilità di ritocchi successivi: tra le poche regole di questo esperimento, questa è forse la più pesante. Ma a guardar bene analoghe limitazioni in ambito artistico (pensiamo ai film del manifesto Dogma 95 o alla letteratura del gruppo Oulipo) sono riuscite a creare prodotti di altissimo valore.
Di novità negli otto pezzi di questo EP se ne possono trovare tante: a partire da “Day Two” (nota: tutti i pezzi prendono il nome dal giorno in cui sono stati composti e registrati) in cui, alla trama di chitarre, si aggiungono poche note al pianoforte, a definire lo scheletro melodico in superficie, e persino un coro vocale viene chiamato a contribuire.
In “Day Four” mentre batteria e basso pestano un ritmo di profondo, di nuovo il pianoforte si accosta ed accompagna l’incrocio di chitarre, che anzi preferiscono restare sullo sfondo.
“Day Seven”, siamo quindi verso il finale, rappresenta il lento chiudersi del sipario, in cui (altra novità) si possono chiaramente sentire dei tocchi su corde di nylon: l’antitesi del post-rock chiassoso che ci si poteva aspettare.
Da notare che i pezzi di questo disco sono tutti brevi, in contrasto rispetto ai lunghi brani che caratterizzano in generale le composizioni strumentali del filone post-rock. Forse ancora un effetto delle limitazioni auto-imposte, anche se quella presente in queste otto tracce è una musica con un respiro ben diverso rispetto alle passate composizioni. Possiamo parlare di un suono nuovo per la band, che andrà avanti esplorando sempre più direzioni cinematiche, allargando lo spettro delle proprie capacità musicali.