Paul Simon – Graceland
Era un autunno del 1984 quando un gruppetto della redazione di NFO incontrò Paul Simon.
Non è vero, non l’abbiamo mai incontrato. Era solo una cosa per dire, una cosa eclatante per attirare la vostra attenzione.
Certamente molti di voi staranno smettendo di leggere, mentre altri borbotteranno un glaciale “avete scoperto l’acqua calda. Quello di Sound of Silence”. No, ecco, sia chiaro: il Paul Simon che vorremmo avere incontrato è un altro.
Felpa degli yankee, mani incredibilmente più grandi rispetto alla sua statura, si aggira per una via di New York col suo cappellino, anni non facili per lui. Siamo nel 1984, un matrimonio appena archiviato, ma soprattutto la delusione derivata dal fallimento del suo ultimo album Hearts and Bones. In questo mood da star quarantenne sull’orlo della caduta vertiginosa, con l’amico e produttore musicale Roy Halee decidono di partire alla scoperta della township music sudafricana. Partono per Johannesburg; e tra il 1985 e il 1986 ci rimangono per registrare, Graceland, in piena apartheid. Nonostante le remore iniziali della Warner Bros., l’album sancirà il ritorno al successo di Paul Simone come solista, portandosi a casa anche un Grammy come Album of the Year 1987.
Paul Simon decise di infischiarsene della risoluzione ONU 35/206, che imponeva a scrittori, artisti, musicisti e altre figure di boicottare il Sud Africa o di avere contatti e scambi culturali di ogni sorta con lo stato africano.
Se fossi in voi partirei proprio da questa seconda traccia, Graceland, che segue l’ingresso esplosivo al disco di “The Boy in the Bubble”, per capire quanto siano distanti le note melense di “Kathy’s song” o “Bridge over Trouble Water”.
Poi ascoltate tutto l’album: stiamo pur sempre parlando di una pietra miliare della World Music, probabilmente uno dei riferimenti qualitativamente più alti di questa “categoria” musicale – e si, sospendiamo fino ad altri post e a data da destinarsi le disquisizioni nel merito di categorie, etichette e rapporti reali o immaginati fra le stesse. In Graceland sentiamo insieme jazz fusion e musica africana uniti a pruriti di musica cantautoriale americana, come risulta lampante in “Diamonds on the Soles of Her Shoes”, “Homeless” o “I Know What I Know” – arricchiti in più dalla corale sudafricana Ladysmith Black Mambazo.
Da questo progetto, che alcuni ribattezzarono (forse erroneamente) Simon Project, non solo vennero fuori una serie di nomi fino ad allora sconosciuti – come Youssou N’Dour, Ray Phiri, Bakithi Kumalo –, ma soprattutto si cominciò a esplorare un approccio musicale quasi del tutto ignorato nella musica mainstream. La ricerca di un ponte di collegamento diretto con la musica africana (la disamina delle influenze indirette necessiterà di una serie dedicata) serviva a soddisfare esigenze discografiche identificabili come quelle del charity music business, ovvero progetti musicali a scopo benefico atti a rilanciare le vendite di volti noti – uno degli esempi più clamorosi è probabilmente “We are the World” di Michael Jackson e Lionel Richie nel 1985.
Con Graceland le cose vanno diversamente: abbiamo un incontro alla pari tra quel personaggetto amorevole di Conrad Lozano dei Los Lobos, con il suo carico di country, zydeco, folk; Adrian Belew chitarrista di King Crimson, Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads; e un bassista come Bakithi Kumalo, scoperto appunto a Johannesburg, in grado di mischiare scale pentatoniche, downbeat alla Jaco Pastorius e un suono che lo stesso Simon definisce “immenso”, simile alla potenza di un corno, ma ancora più primordiale. E poi Chikapa ”Ray” Phiri, chitarrista rimasto al fianco di Simon fino ad oggi; Isaac Mthsli, Vusi Khumalo. Ed è una serie di jam che coinvolgevano queste e tante altre persone ad essere alla base di questo album. Nato dalla testardaggine di Simon di volere a tutti i costi registrare in Sud Africa, ma che si dimostra un vero e proprio lavoro comunitario in cui i contributi di ogni artista sono difficilmente scindibili gli uni dagli altri.
Non stiamo parlando di un semplice disco: Graceland è un vero e proprio viaggio spazio-temporale lungo quarantacinque minuti. Allacciate le cinture e buon ascolto.