Michael Head and The Strands – The Magical World of the Strands
Michael Head è uno di quei musicisti del panorama contemporaneo nel quale persona e personaggio si confondono resistendo alle inclemenze della critica e delle case di produzione discografica.
La dissolvenza, si sa, è anche un’arte: “devi imparare a sparire tra la seta e le anfetamine”, suggerisce Johnny Mathis a Mark Eitzel nella splendida “In Johnny Mathis’ Feet” degli American Music Club. Head deve averne fatto tesoro mentre, in un abile gioco di parole, si diceva che avrebbe perso la testa: il giocoliere Lawrence (Go-Kart Mozart) lo racconta in “Mickie Made the Most” – pezzo dedicato al produttore di Mickie Most & the Gear (1964) e scopritore degli Animals – riferendosi proprio a lui, il Mickie Head musicista di Liverpool.
Dove avrebbe perso la testa Mickie? L’avrebbe persa nella sua Time Machine (1988): nelle sale di registrazione arrangiate nelle quali si combinavano suoni e ritmi del pop dei sixties, punk e garage-rock dei seventies e pezzi di cantautori indipendenti. L’avrebbe persa mentre nel folk dei Byrds incastrava le ampie e profonde armonie di Burt Bacharach e il rock and blues dei Love di Arthur Lee che con la sua voce calda cantava a L.A. Everybody’s gotta live and everybody’s gonna die. L’avrebbe persa (la testa) dietro alla sua instancabile creatività artistica convertita in quattro progetti musicali – The Pale Fountains, gli Shack e due brand omonime The Strands e The Red Elastic Band – e nei piccoli capolavori di Zilch (1988), Waterpistol (1991) e H.M.S. Fable (1999).
L’avrebbe persa infine nel 1997 nel Magico Mondo delle Stringhe, subito dopo il suo tour con i Love che converte in note di inaudita bellezza, e nei suoi incontri con la droga di cui parla nell’album con estrema sincerità. Non una parola assolutoria; è solo il racconto di ciò che è stato dentro e fuori di lui, accompagnato dal fratello John alla chitarra come nella vita.
L’album, di tredici pezzi, è un viaggio nelle dipendenze che scorge in lontananza l’albeggiare dopo aver passato la notte più nera. È per questo che l’album emana bellezza, la pacatezza di chi sa che, pur tra vari tentennamenti, una direzione c’è e questa volta è quella giusta: “mettiti la testa apposto adesso che lei se ne va”. Queen Matilda lo apre con una melodia acustica espansiva che unisce le trame elisabettiane in una deliziosa foschia allucinogena. “Something Like You” aggiunge corde, fiati e violini dalle note delicate. “And Luna” ha un ritmo allegro, più fresco, marcato dalle corde di una chitarra che sembra indicarci il cammino e ci ammalia con il suo coro.
Iniziamo la discesa verso l’Inferno, tra le note avvolgenti di “X Hits the Spot” e i toni cupi di “The Prize” che ci fanno toccare con mano il fondo dell’album: la dipendenza dall’eroina e l’annichilimento della coscienza. “Cosa succede a tutti i miei vestiti e mobili, sai che non possono semplicemente sparire. X colpisce quando non ci sei”. Un breve interludio, con la strumentale “Undecided”, la psichedelica “Glynys and Jacqui” e gli splendidi arrangiamenti di chitarre di “It’s Harvest Time”, ci concede una pausa prima di ripiombare nel cuore dell’abisso.
Siamo adesso pronti per “Loaded Man”, la lettera a cuore aperto che il fratello John gli dedica con amore esprimendo il desiderio di vederlo conquistare i suoi demoni.
Riprendiamo quota e l’atmosfera si alleggerisce con il folk e il banjo di “Hocken’s Hey”, mentre Head canticchia: “a volte penso al mondo”. Stiamo intravedendo l’alba. Con “Fontilan” siamo di nuovo in superficie e alla luce del sole. Il viaggio finisce con “Green Velvet Jacket” che si riaggancia al tema iniziale.
Una sensazione di immensa bellezza e di piena armonia ci pervade adesso che riponiamo il suo disco. Michael avrà pure perso la testa, ma in questo viaggio noi l’abbiamo persa per lui e per il suo Magico Mondo fatto di Fili e di Stringhe incantate.
Brava! Mi viene voglia di ascoltare questo album e di fare un viaggio senza tempo in un mondo per me ignoto