Biohazard – Urban Discipline
Giusto una settimana dopo la release del leggendario disco omonimo dei Rage Against The Machine i Biohazard pubblicano un disco che esplora ulteriormente il percorso iniziato da band come Body Count e da collaborazioni storiche come quella tra Anthrax e Public Enemy.
Il titolo è Urban Discipline, un disilluso e realista condensato di rabbia urbana, hard core punk, rap, metal e una spiccata attitudine per la creazione di groove pesantissimi che hanno fatto scuola per generi come new metal, hardcore metal e rap hardcore. Vario, dinamico e aggressivo, il disco è suonato con cattiveria, perizia tecnica e inventiva, il tutto filtrato attraverso un’attitudine stradaiola e incompromissoria che racconta di storie di vita vissuta, dove i poveri combattono tra loro e tu ti tieni stretto quel poco che hai. L’atmosfera è tetra ma piena di energia, il vasto background musicale della band le permette di eseguire brani in cui si spazia con assoluta naturalezza da ritmi molto lenti, che rimandano un po’ ai Black Sabbath di War Pigs, a parti in cui si ha l’impressione di ascoltare i Cypress Hill – chitarre dure, downtuned e voce filtrata. Ascoltate Disease per credere.
Le quattordici tracce scorrono via rapidamente, piene di parti o sequenze che rimangono impresse in testa grazie all’abilità non comune della band di essere capace di suonare musica accattivante ma picchiando sempre a mani nude. Le fasi ritmiche, interpretate con personalità da Danny Shuler alla batteria, sono di valore assoluto e il suo lavoro in questo disco è una sorta di stato dell’arte della batteria hardcore metal moderna. Il basso di Evan Seinfield va a completare una sezione ritmica eclettica che non smette mai di divertire e divertirsi. Le voci di quest’ultimo e di Billy Graziadei, anche chitarrista, sono un altro tratto distintivo della band che ha influito sulle generazioni a venire: la prima dal tono grosso, rozzo, molto slang e l’altra urlata su toni alti, di impronta più hardcore, per una combinazione che nel 1992 nessuno, tranne loro, aveva concepito. Le chitarre di Graziadei e Bobby Hambel sanno essere groovy, con grossi rimandi alla scuola hard rock metal di band come Black Sabbath, Motorhead, ma allo stesso tempo anche dure e marziali, come in alcuni riff di Shades Of Grey, Mistaken Identity e Hold My Own. Gli assoli di Hambel aggiungono, se possibile, un tono ancora più urbano, street, che col wah wah si lancia in lick di scuola metal anni ‘80 che rendono ancora più ampio lo spettro sonoro. Difficile scegliere le tracce migliori, al massimo potrei suggerire le più rappresentative oltre a quelle già elencate precedentemente: Wrong Side Of The Tracks, Man With A Promise e Punishment.
Lì dove una registrazione grezza e live come quella di questo disco sarebbe potuta essere un punto a sfavore, si rivela invece come un valore aggiunto perché rende ancora più veritiero l’immaginario di questo album, che non posso far altro che definire come uno dei migliori degli anni ‘90.