Kim Hiorthøy – Dogs

 

Kim Hiorthøy è per me un enorme mistero. Non che non si trovino sue informazioni in giro, ma resta un enigma come possa un solo individuo riuscire a gestire così tante versioni del suo essere artista.

Personaggio altamente polivalente: forse più noto come artista grafico, sono opere sue, ad esempio, un numero imprecisato di artwork per dischi pubblicati dalle etichette norvegesi Smalltown Supersound e Rune Grammofon di Oslo. Ma anche fotografo, regista e ovviamente musicista. La sua figura è una di quelle di cui avrebbe senso ossessionarsi, anzi forse la varietà delle cose che produce è un chiaro invito alla ossessione (almeno per me).

Con Dogs, suo terzo album uscito nel 2014, Kim Hiorthøy ci invita ad esplorare un nuovo lato di quel mondo musicale conosciuto fino ad allora. I primi dischi, infatti, non sono molto differenti dalle elucubrazioni elettroniche di inizio 2000, e non distanti dalle sonorità dei primi dischi di progetti come Four Tet o Caribou.
Per i pezzi in Dogs, invece, ha scelto di partire da composizioni al pianoforte, nella stessa postura e con le stesse intenzioni, per darvi un’idea, di Aphex Twin quando compose “Avril 14th”.

Passaggi brevi e distratti sono mischiati ad altri elementi (beat elettronici, field recordings…) per far venir fuori un paesaggio rarefatto, come suggerisce la copertina (di cui è l’autore): quel bianco interrotto solo da qualche tratto di matita è una giusta rappresentazione del mood del disco.

Del pianoforte  si cerca più che altro l’elemento percussivo dello strumento come in “Träbit”, composta di frammenti che si intrecciano a campionamenti elettronici a spezzare la monotonia. Hiorthøy al piano non è incline al virtuosismo, né ha voglia di agganciarsi a filoni minimalisti e ambient che stanno spopolando negli ultimi dieci-quindici anni. O meglio, un accenno ad ascoltare bene si trova in “Allt Är Skit”, dove possiamo rintracciare eccezionalmente forse degli echi einaudiani.

Del resto, va detto che tutto quello che sentite è finto: nessun pianoforte è stato usato per questi pezzi, è tutto elaborato al computer. È lui a spiegarlo in un’intervista: dopo aver pensato ad un nuovo disco elettronico, sulla scia dei precedenti, Kim ha optato per una strada diversa pensando, erroneamente, che sarebbe stata più semplice.

Dice: “I thought, Why not just make a record of only the piano tunes? I thought it would be much easier to finish, but then once you start—the hard thing is always to really finish”. Non sorprende trovare quindi in Dogs  passaggi che sembrano solo bozze, studi o tentativi (“Det Oläsliga rummet”, “Pirate”, “Men Jag Sov I Stället”) ma che in realtà sono studiati per farci entrare in quel candore bianco, disturbato quanto basta per dargli un movimento, un’intenzione.

Sempre in quella intervista, aggiunge “I made it sound like it was made in a different way from how it was actually made”, lasciando intendere d’aver lavorato attentamente per tenere nascosto il processo con cui venivano composti i brani. Avendo ascoltato il disco più volte prima di leggere questa sua intervista, io personalmente ne sono rimasto spiazzato: solo un approfondito ascolto farà emergere il lavoro che c’è dietro  questa ‘impostura’.

C’è dunque un vero e proprio approccio da artista dietro queste 11 tracce, esattamente quello che dovevamo aspettarci da un tal personaggio. E quand’è così il risultato non può che essere sublime.

 

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