The Jazz Butcher – Fishcotheque

Gli eighties sono un tempo particolarmente felice per la scena musicale britannica. Il pop dei decenni precedenti, il punk e il garage-rock degli anni ’70 e la produzione dei cantautori indipendenti danno nuova linfa a un laboratorio sperimentale a ciclo continuo.

È dall’unione di questi reagenti che, insieme ai tanti gruppi che segneranno il panorama musicale internazionale, nasce anche Pat Fish. Il suo progetto prende il nome di The Jazz Butcher (o Jazz Butcher Conspiracy), che è il gruppo con il quale inizia a incidere la sua musica sin dal 1983.  Fishcoteque – l’unione di Fish e di discoteque – del 1988 è il suo quinto album, composto da dieci tracce, quasi tutte significative. È un pop malinconico, unito a un pub-rock minimale, ma dalle linee decise e un’idea chiara: quella di un artista che della musica difende la professionalità, non assimilabile all’intrattenimento amatoriale.

Più prossimo a un cantautore indipendente che a una band, la sua musica è legata alle influenze musicali di Dylan e della Velvet, ai rapporti con Jonathan Richman (the Modern Lovers) e gli Spacemen 3, alle collaborazioni con Bauhaus e ai compositori indipendenti come Pete Astor.

Il disco pare assumere un andamento circolare, nella narrazione e nell’interludio musicale: il ritmo e le ineludibili domande del primo pezzo, “Next move Sideways”, trovano una corrispondenza musicale e testuale nell’ultimo, “Keeping the Curtains Closed”. Nel mezzo, tra un ritmo incalzante e degli ottimi pezzi, si nasconde la ruvida dolcezza di “Susie”, uno dei migliori pezzi dell’intera produzione musicale.

Il pregio dell’album è quello di arrivare dritto all’ascoltatore: una formazione artistica consolidata, un ambiente musicale esplorato nei dettagli e un messaggio ben preciso. La narrazione è diretta: una rappresentazione critica e sdegnata del mondo moderno, con le sue (molte) miserie e le sue (poche) nobiltà.

Le situazioni descritte non lasciano indifferenti chi le ascolta, provocano un certo disagio, scardinano le ipocrisie; le domande affilate come coltelli affondano sulla pelle di chi sta all’ascolto, ne rivelano le contraddizioni, lo mettono alla prova. La paralisi del mondo moderno è poi inaspettatamente prossima ai molteplici esperimenti sociali del lockdown contemporaneo.

Il disco si apre con “Next move Sideways” e con una domanda ben precisa: “quale sarà la tua prossima mossa, adesso che potenziale è la tua parola preferita e l’autobus ti lascia alla fermata successiva? Proprio adesso che riprendo ad ascoltare il suono del lavoro che scorre sull’autostrada, che sento l’odore di diesel nell’aria che ci fa capire che siamo ancora vivi” si è obbligati a rispondere a questa domanda: “dici di non fare mai a pugni, ma adesso potresti scomparire”, biascica Pat.

“In Out of Touch” l’incertezza si fa sempre più incalzante in un mondo che sta cadendo in frantumi: “alcune cose stanno per cambiare, altre cose stanno per cadere a terra. E non possono nemmeno darti la soddisfazione di un rumore”. L’esperienza dell’isolamento senza la possibilità di incidere sulla realtà si trasforma inizialmente in triste contemplazione: “Stai calmo – non vedo come queste cose ti faranno del male-. Puoi rilassarti a casa e giudicare il mondo dal tuo davanzale”.

Effettivamente, dice Fish in “Swell”, questo tempo “mi ha lasciato paralizzato, proprio come non avrei mai pensato, come ho sempre saputo che sarebbe stato”.
Ci avviamo verso la fine e Fish ci conduce per mano verso quella che per lui è la migliore soluzione, “The Best Way”: continua a lottare, dice tra un intermezzo e un altro, è la cosa giusta da fare. E ricorda le parole del filosofo Ken Morgester, che una volta disse: “Il fallimento non è cadere, il fallimento è restare giù”, sottomessi.

Tuttavia, in fondo all’album, in “Keeping the Curtains Closed”, per chi “ha atteso a lungo la rivoluzione per buttare a terra la sua strada, perché quando vi girava attorno era sicuro che avremmo tutti avuto a sufficienza per vivere”, non resta che prendere amaramente atto che “il bus è ancora fermo su quella linea e che ci sono troppe persone e non c’è tempo sufficiente”. La rabbia si mischia allo sdegno e all’impotenza, ma non è rassegnazione perché si è lottato. Ma forse, come dice il penultimo verso, “non c’è alcun motivo di chiedersi perché sia andata male”.

Ed è così che si chiude il sipario.

 

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