Qualcosa di pulito, elegante e grafico:
forma di un successo Pink Floyd

Sinistra: Diagram of a dispersion prism, da WikipediaCommons, autore Suidroot
Destra: George Hardie, Hipgnosis, Harvest Records | Copertina di Pink Floyd Dark Side of the Moon, 1973
MoMA, New York | Litografia 30.5 x 30.5 cm

Ogni anno, potremmo ricordare più volte i Pink Floyd per il ricorrere dell’uscita di uno qualsiasi dei loro memorabili capitoli musicali – una serie di album che costituisce forse una delle più intriganti e complesse discografie della storia del rock.

Quello che però i fan spesso faticano a ricordare – compreso me – è che a differenza di molti innovatori e creativi degli albori della sperimentazione musicale, che sono rimasti (o rimaste) Cassandre in terra straniera, i Pink Floyd sono stati più meno subito, e facilmente, accettati da un pubblico sempre più vasto e trasversale al genere stesso, entrando di fatto già all’inizio degli anni settanta nel più vero e puro mainstream dell’epoca. Processo senza dubbio accelerato a partire dalla definitiva uscita di scena di Syd Barrett.

Ma perché questo preambolo?

Serve a contestualizzare il motivo per cui in questa cover story ci dedichiamo alla disamina della copertina di The Dark Side Of The Moon. La loro musica è infatti uno dei settori più coperti della discografia mondiale; ma per entrare nel merito di quel successo mainstream cui accennavamo sopra, è interessante avere un quadro il più completo possibile della vastità dell’approccio progettuale della band e della produzione. La copertina di Dark Side Of The Moon ne è un esempio lampante perché esemplifica al meglio la lucidità dell’intenzione espressiva finalizzata alla conquista di ascoltatori che diventano anche spettatori: quando la band “commissiona” il lavoro a Storm Thorgerson e Aubrey Powell di Hipgnosis, le parole di Richard Wright, tastierista del gruppo, sono molto chiare e nette: «Storm perché non fai qualcosa di pulito, elegante e grafico?».

Thorgerson e Powell erano di base fotografi, solo gradualmente divennero dei veri e propri designer.

Da quando avevano iniziato a essere responsabili delle copertine dei Pink Floyd nel 1968 con A Saucerful of Secrets, infatti, ognuno dei loro lavori si originava a partire da una o più foto successivamente manipolate, e la stessa cosa valeva per le collaborazioni che cominciavano ad avere anche con altre band – si pensi alla foto saturata in bianco e nero dello zeppelin di Led Zeppelin I. La richiesta di Wright, supportata dal resto della band, che si trovava in uno dei più alti momenti creativo-collaborativi della loro storia, lascia molto interdetto Thorgerson, ma Wright non molla: «Potremmo non avere una delle tue foto assurde?» (pensate al quadro nel quadro di Ummagumma, o alla mucca su campo verde di Atom Heart Mother). Storm è dubbioso, non si è mai veramente dedicato alla grafica. Wright invece è deciso, c’è evidentemente dietro un’idea, una necessità impellente: «Beh, perché dovrebbe essere così difficile?».

E di fatto, così fu.

Nell’arco di una serie di notti di brainstorming furiosi, gli Hipgnosis preparano sette modelli di copertina diversi da proporre a band e produzione. Le idee sono tante, ma Storm ha in mente gli spettacoli di luce della band, una delle loro grandi novità dell’epoca, che ancora rimanevano perlopiù ristretti a una nicchia relativamente piccola di pubblico. L’idea era un po’ figlia di memorie di libri di fisica, un po’ di elucubrazioni sul senso astratto delle forme, sullo sfondo di una più generale riflessione sul rapporto tra l’uguaglianza dei lati di un triangolo e i più profondi significati della vita. Uno stralcio di paragrafo sulla dispersione ottica dei prismi diventa così la base per lo svolgimento di un’idea interamente basata su un approccio grafico nudo e semplice, quasi tendente al monocromatismo, non fosse appunto che per il gioco di rifrazione. È nello specifico George Hardie che realizza graficamente il concept, seguendo le indicazioni di Thorgerson e Powell: il prisma viene rielaborato in una più essenziale forma di triangolo equilatero su campo nero, spezzato solo dalle due strisce oblique che vi entrano come raggio di luce bianca da un lato, e ne escono come fascio cromatico dall’altro. Sul retro l’immagine continua in una sua riproduzione speculare ingrandita e ribaltata.

È un’idea contagiosa e spettacolare, che conquista subito tutta la produzione.

Nonostante fra le altre proposte campeggiasse un progetto che avrebbe visto un Silver Surfer in live action come protagonista assoluto della copertina, il prisma conquista tutti a pelle – eppure nella musica non ci sono ancora molte esperienze di minimalismo grafico a cui riferirsi. Anzi, diventa addirittura il simbolo iconico della band – lo è ancora adesso. E in un contesto in cui, allora come oggi, ma soprattutto allora, le persone non avrebbero facilmente riconosciuto i loro idoli anche se li avessero avuti a fianco, mentre bastava fare anche solo menzione del prisma per sentirsi dire “Pink Floyd”. Ci possiamo addirittura sbilanciare nel dire che è probabilmente anche questa veste grafica unica ad avere garantito la diffusione e il successo del disco nonostante l’apparente voglia del gruppo di fare di tutto per non promuoverlo – pensate che gioia per i negozi di dischi del 1973 poter esporre in vetrina combinazioni vibranti di copertine di Dark Side insieme agli altri inserti dell’album, che contenevano poster con immagini di piramidi, risultato di foto fatte da Thorgerson a Giza apposta per l’occasione. Oggi la copertina è materiale da catalogo ufficiale del MoMA. Come se, mentre parlava a Storm chiedendogli qualcosa di “grafico”, Wright sapesse che le foto ritoccate non sarebbero più bastate a fare il salto. Come se avessero capito che la grande chiave del successo galattico, potesse passare proprio dal giusto equilibrio di stratificazione musicale, mistero, e minimalismo estetico.

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