Charles Mingus muore oggi

Quarant’anni fa come oggi moriva Charles Mingus, a soli cinquantasei anni, a Cuernavaca in Messico. E la leggenda vuole che lo stesso giorno in cui ci lasciava, cinquantasei balene vennero a morire tutte insieme arenandosi su una spiaggia messicana.

Tentarono di curarlo in tutti modi da quando durante il Thanksgiving del settantasette scoprì di soffrire di sclerosi amiotropica laterale; ipnosi, erbe, pozioni, bagni di fango, bevve persino il sangue di un’iguana nel tentativo di guarire. Tutto finì il 5 gennaio 1979, quando il suo cuore cessò di battere, fu cremato, e le sue ceneri sparse in India nelle acque del Gange, secondo la sua volontà.

Contrabbassista, virtuoso, pianista, band leader, autore, poeta, militante per i diritti civili, e compositore oceanico, secondo, quantitativamente, solo a Duke Ellington; uno dei pochissimi artisti insigniti di due borse di studio, ricorda Steve Schlesinger della Guggenheim Foundation, che riferendosi alle sue abilità compositive volle precisare come aspettasse «il giorno in cui potremo trascendere definizioni ed etichette come jazz e finalmente riconoscere Mingus come il più importante compositore americano qual è».

In carriera raggiunse il picco di fama a metà degli anni sessanta, quando la sua tecnica e intensità musicale cominciò a influenzare il panorama jazzistico americano ed europeo, rendendolo popolare.  Alcuni critici affermano che era proprio la tendenza di Mingus a suonare in levare rispetto al ritmo a creare la tensione ritmica frenetica tipica del suo stile e tratto distintivo delle sue opere.

Tensione che rispecchiava la sua personalità per certi versi indecifrabile, perennemente in bilico tra spinte emotive contrarie, infrenabili e imprevedibili: la dolcezza e la volgarità, la comprensione e la collera violenta, il vittimismo e l’esaltazione di sé.

Non aveva problemi a definirsi un diverso, un disadattato, negro, giallo (ricordando così i suoi antenati pellerossa), un bastardo anzi Peggio di un bastardo (Beneath the underdog) è proprio il titolo del suo libro autobiografico, in cui dice di sé: «in altre parole, io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni, senza emozioni, osserva e aspetta l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena di amore, di gentilezza, che permette agli altri di penetrare nella cella più sacra del tempio del suo essere, e si fa insultare, e si fida di tutti […] e quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e di distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso sé stesso, per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa; e invece si chiude in sé stesso».

La complessità della sua personalità, il suo stile sempre eclettico, hanno richiesto – con un’intensità mai riscontrata nel jazz, fatta eccezione per Charlie Parker e Nina Simone – una lettura psicanalitica e umana del suo percorso artistico.

QI fuori dal normale, genio senza dubbio, il suo primo strumento fu il trombone, per poi passare al violoncello, il pianoforte per tanto tempo, e solo in seguito al suggerimento dell’amico Buddy Collette, il quale aveva bisogno di un bassista nella sua band, iniziò la sua carriera con quello che per noi ascoltatori-spettatori divenne il suo strumento per eccellenza. Erano gli anni quaranta quando giovanissimo iniziò a suonare con Louis Armstrong, Kid Ory, Lionel Hampton. E una volta trasferitosi a New York suonò e registrò con il gota del jazz dell’epoca: Charlie Parker, Miles Davis, Bud Powell, Art Tatum, e Duke Ellington per citarne alcuni. Il suo più grande lascito è forse stato proprio l’elevazione di basso e contrabbasso dalla mera funzione di accompagnamento ritmico a quella di strumenti dotati di potenzialità solistica e melodica. Leonard Feather nella sua Enciclopedia del Jazz degli anni sessanta (Encyclopedia of Jazz in the Sixties) lo definisce «un collegamento essenziale tra la vecchia scuola, gli stili quasi dimenticati e l’improvvisazione libera degli anni sessanta».

Mingus fu anche tra i più noti portavoce del movimento per i diritti civili, uno dei più forti a denunciare la discriminazione degli artisti neri. Effervescente sensibilizzatore di una coscienza critica nel mondo musicale e non solo, era un militante senza legami diretti con la struttura organizzata militante. Era solito interrompere alcuni dei suoi concerti per riprendere il pubblico fino al punto di esplodere sul palco in veri e propri scatti d’ira, caratteristica che gli fece attribuire l’appellativo di Jazz’s angry man. Odiava persino lo stesso termine, jazz: «non chiamatemi musicista jazz, la parola jazz significa negro, discriminazione, cittadino di seconda classe, sedersi nel dietro dell’autobus». Al netto della lotta politica e dell’idealismo critico, non fu mai settario nelle scelte musicali, si attorniava spesso di musicisti bianchi, era un uomo enorme, inarrivabile, senza colore, né possibilità di definizione univoca, come solo i giganti mitologici sanno essere.

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