Youth Group – Skeleton Jar
Cosa resta oggi di un teen drama come The OC, infarcito di adolescenti difficili che affrontano le avversità della vita il più delle volte sdraiati a bordo piscina? Probabilmente non l’esile trama bensì una colonna sonora di livello curata da consulenti musicali – figura fino a quel momento sconosciuta – ed in grado di sdoganare ad un pubblico trasversale capisaldi dell’indie d’inizio anni ‘00. Tra i Beulah, Pinback e Futureheads una band australiana arriva ai vertici delle classifiche grazie ad una cover di “Forever Young” degli Alphaville incisa appositamente per la serie. Sono i Youth Group.
Vero che la band godeva già di un piccolo seguito tra gli addetti ai lavori grazie al loro secondo album, il piccolo gioiello indie-pop del 2005 Skeleton Jar. “Compralo se ti piacciono i Death Cab for Cutie” riportava la linguetta d’accompagnamento del disco mentre lo stesso Chris Walla, chitarrista proprio dei Death Cab For Cutie, si era speso a loro favore parlandone in questo modo: “Skeleton Jar is sweet and dear and genuine in a world stolen by cynics… If you don’t love them your heart is dead.”
Mentre constatiamo che il nostro scaffale di sentimental-pop inizia a farsi affollato, diamo fiducia al minaccioso orso in copertina e ci avventuriamo nell’ascolto di questi undici pezzi non senza un defibrillatore a portata di mano.
Si inizia con “Shadowland”, una traccia di un pop gioioso ma anche dal fuorviante ottimismo. Sebbene la performance del cantante Toby Martin sia limpida e ariosa, il testo apre al racconto di un’estate a casa dal college in cui affiorano le cose da cui si era fuggiti e forse l’unica per cui si era tornati: “ Weight loss, first frost, valium, sink fast, life coach, guru, I turn and I find you”.
Se piacciono o meno gli Youth Group questo dipenderà forse dai sei minuti di “See Saw”. Nonostante l’intro melodico, il brano è come un giro sull’ottovolante, pieno di tornanti, salite e discese, tenendosi ben stretti nel tratto finale dove la batteria si fa fragorosa ed il basso sfuma dietro un muro di chitarre prima di rimetter i piedi per terra. Una menzione speciale la merita poi “Lillian lies” in cui è quasi possibile rivedere la protagonista di “Stephanie says” dei Velvet Underground – forse perchè le due donne sono unite dal desiderio di metter i pensieri a tacere in un paese che non le vuole, mentre l’incedere folk ne mette a nudo fragilità e desideri.
In chiusura troviamo “Piece of Wood”, una canzone che a suo modo racchiude bene lo spirito dell’album. È un pezzo di un incedere lento dove il pizzicato di una chitarra acustica è intervallato da uno xilofono che impreziosisce un pianoforte appena accennato. Atmosfere delicate che rintuzzano immagini oscure evocate nel testo, proprio come in tutto l’album e qui riassunte da un: “All I am is the tail of worm, cut from something squirming, pinned to the earth I twist and turn”.
Skeleton Jar è pieno di quel tipo di musica che fa muovere il piede a tempo mentre ti fa venire un nodo in gola. Dal punto di vista sonoro fonde pop, folk, country, brit-pop ed un rock malinconico evocando a turno The Posies, Bright Eyes o The Pixies. Tuttavia, non è il suono il punto in cui questo album colpisce davvero nel segno. Sono i testi delle canzoni che fanno di Skeleton Jar un album da ricordare.
Toby Martin, cantante e paroliere, crea una specie di luogo riconoscibile all’interno della sua musica in cui il presente è fatto di parole stanche, arrabbiate, confuse ma dove la speranza e la volontà di cambiare fanno intravedere un finale aperto. Non si celebrano trionfi quindi ma la vulnerabilità della giovinezza in un album di picchi vertiginosi che parla di una band che non disattende le promesse, facendo intravedere i segni di un qualcosa di ancora più grande che sarebbe potuto arrivare.