Tropicália resiste
Tropicália è una vera e propria antologia di “musica popolare brasiliana contemporanea”, prodotta e pubblicata nel luglio del 1968 – per gli anni sessanta era anzi decisamente d’avanguardia, anche rispetto a standard internazionali – e di fatto bandita dopo nemmeno sei mesi, insieme al lavoro di tutti i suoi autori, che lasciano quasi tutti in pochissimo tempo, sequenzialmente, il paese.
Siamo in Brasile. Il 13 dicembre 1968, il presidente Artur da Costa e Silva promulgava l’Ato Institucional Número Cinco – AI-5, che a quattro anni dal colpo di stato militare, sanciva in maniera formale e legalista l’approccio pienamente e ostentatamente dittatoriale con cui il direttorio militare aveva intenzione di gestire paese e dissenso. Questo specifico Atto Istituzionale – forse la più memorabilmente infame delle legislazioni della Dittatura Militare che controlla il Brasile dal 1964 al 1985 – voleva reagire specificamente agli smottamenti culturali che avevano tentato di resistere alla presa di potere fascista da parte dell’esercito. Non ne faremo una ricorrenza, non vogliamo celebrare questo evento; ma è importante ricordarlo, soprattutto mentre iniziamo a parlare di Tropicália – ou Panis et circensis, un disco che era un’idea, pericolosa per alcuni, e che come tale è stato trattato per più di vent’anni dal paese che lo ha prodotto.
Tutto si mischia in Tropicália: il rock psichedelico col samba, il folk con l’elettronica, la bossa nova con la jazz ballad. Potremmo quasi individuare nelle idee che sostengono questo disco la quintessenza creola del paese, per quasi cinquecento anni crocevia di schiavi e padroni da almeno tre continenti. D’altra parte è la fine degli anni sessanta, siamo nel pieno della beat generation, il “primo mondo” è in fermento, e le sue incontinenze artistiche arrivano dappertutto. Dopo aver ascoltato musica americana e inglese per decenni, il Brasile ha in parte relegato all’oblio la propria tradizione musicale popolare storica. Ma questo gruppo di artisti non riesce più a convivere con queste semplificazioni dicotomiche tra generi, che siano di musica o di idee: è tanto importante vivere la follia e la sperimentazione del presente quanto ribadire i propri ritmi atavici e le proprie nostalgie. Ed è proprio questo il progetto ambiziosissimo che intraprendono gli “autori vari” di Tropicália: Caetano Veloso, Gilberto Gil, Nara Leão, Gal Costa e gli Os Mutantes, in varie combinazioni, esecutori delle tracce, oltre che autori dei testi, insieme ai contributi di Torquato Neto, Tom Zé e José Carlos Capinam, e agli arrangiamenti orchestrali di Rogério Duprat. L’ascolto è folgorante: indipendentemente dalla familiarità che possono suscitare all’orecchio le mille suggestioni a volte apparentemente antitetiche dei brani – Misere Nobis, Panis et Circensis, Geleia Geral e Bat Macumba saltano in particolare “all’orecchio” – si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un ascolto magnetico, elettrizzante e scioccante al tempo stesso.
La censura di stato non poteva certamente tollerare istanze di pensiero e di vita che potessero fare immaginare alternative all’ordine che si cercava di “realizzare” nel paese. Il gruppo di Tropicália aveva già intrapreso questa esplorazione musicale ben prima della pubblicazione del disco, alcuni dei brani erano infatti già stati precedentemente pubblicati dai rispettivi artisti come solisti. Ma rimane comunque un’esplorazione collettiva, che concretizza il concetto di tropicália, o tropicalismo, in un vero e proprio movimento culturale attivo e trasversale, che nella musica di questi artisti in esilio (entro il 1970 Gil, Veloso e Leão erano già scappati dal paese), trova la sua voce più potente di diffusione e sensibilizzazione, oltre che di vera e propria organizzazione in un fronte di resistenza alla repressione. Ma come già notato prima, Gil, Veloso, Costa e company non tirano certo queste idee fuori dal cappello: di tropicália si parla già da decenni in Brasile, ed era stato uno dei grandi artisti della storia brasiliana, Hélio Oiticica, a coniarne il nome. E a precedere e influenzare il concetto di tropicália era stato il più complessivo movimento modernista brasiliano, anch’esso un movimento trasversale a diversi ambiti dell’arte e della cultura, segnati da concetti fondativi quali quelli del Manifesto Antropófago, delineato nel 1928 da Oswald de Andrade: cannibalizzare tutto, cannibalizzare meglio, mischiare il mischiabile per tirare sempre fuori qualcosa di unico, di nuovo. Volontario e involontario, conscio e inconscio si confondono in questo processo, aprendo con questo approccio alla realtà a una potenziale libertà e portata che evidentemente terrorizza la limitata e ordinante prospettiva fascista del governo militare. Che non poteva che rendere fuorilegge tutto e tutti.
Ora, dal verificarsi del colpo di stato militare nel 1964, ci sono voluti circa quattro anni per arrivare alla censura e repressione completa di qualsiasi dissenso, politico e culturale. Ci piacerebbe poter pensare che queste sono cose del passato, che non abbiamo più da temere questo – altro sì, certo, ma non questo! Eppure, a soli due giorni dall’elezione di Bolsonaro presidente del Brasile, così intimamente ed esplicitamente nostalgico dell’oscurantismo militarista che ha già censurato in passato il paese, è ancora Caetano Veloso a ricordarci il pericolo, pubblicando nella più mainstream delle piattaforme streaming in circolazione, Spotify, una playlist di musica “resistente”, e un monito: “Attenzione. Tutto è al momento pericoloso, ma è allo stesso tempo divino e meraviglioso. […] Dobbiamo rimanere vigili e forti, non c’è tempo per temere la morte”. Vorremmo tanto poter dire a Catenao Veloso di smetterla, che esagera. Ma in realtà rabbrividiamo alle sue parole. Quindi continueremo a esplorare questo Brasile, presente e passato, il più possibile. Coraggio.