The Style Council – Café Bleu

 

Il laboratorio sperimentale britannico – che spazia dal mod-jazz al rhythm and blues al soul della subcultura giovanile dei fifties, al blue-bit d’importazione, al pop e alla psichedelia dei sixties, sino al punk e al garage-rock dei seventies – nei primi anni ’80 ci riporta verso un sofisticato northern soul.

Sulla scena torna l’eclettico Paul Weller con il nuovo progetto musicale degli Style Council insieme a Mick Talbot. Dopo l’esperienza dei Jam, una delle più influenti del panorama musicale britannico degli anni ’70, fra punk-rock e rhythm’n’blues d’ispirazione kinksiana, Weller aveva intuito forse che i tempi stavano cambiando e che il garage rock non poteva più veicolare emozioni e contestazioni nel mezzo dell’era Thatcher. Spariglia le carte, chiude i Jam all’apice del successo e cambia inquadratura.

Café Bleu del 1983 è il primo vero album degli Style Council: tredici tracce che ricostruiscono, come in un set cinematografico, la Parigi degli anni ‘50, tra interni con decor sofisticati, moquette impregnate di fumo, due sigari, un drink e uno spettacolo di jazz.

È un messaggio di attese e pugni in faccia alla working class, di leggi inesorabili del profitto e di guizzi di orgoglio per riprendersi ciò che è stato rubato: potere, risorse e speranze ai tanti sfruttati di questo mondo. Si sente forte la contestazione dell’Inghilterra thatcheriana contro le diseguaglianze sociali e razziali.

C’è la benedizione di Mick (“Mick’s Blessing”) prima di entrare nell’inferno; poi “Whole Point of No Return” descrive la legge scritta dai lord: che i loro figli vadano a spasso con la migliore selvaggina pagata dalla servitù, perché la legge è fatta da e per i ricchi. Ma l’accettazione appartiene a chi può permettersela e la working class ha una sola arma: alzarsi e riprendersi la proprietà di ogni uomo.

Nel breve intermezzo tra amore e morte, sul pontile della bossa nova salpiamo anche noi (“Me Ship came in!”) verso “Blue Café” e la sua splendida chitarra. Godiamo di un pezzo soul da boulevard parigino a mezze luci, “The Paris match”, con la voce di un’avvolgente Tracey Thorn (degli Everything But The Girl) che canta di trepidanti attese; pur nella miseria quotidiana, nella lotta per sopravvivenza e dignità, siamo vivi in carne ossa e desideri.

In “My Ever Changing Moods” un Weller capriccioso ci ricorda che il passato è la nostra conoscenza, il presente il nostro errore e il futuro lo lasciamo sempre troppo tardi. Così, ubriacati di northern soul, ci troviamo di nuovo nell’inferno più nero.

Nella splendida “A Gospel” quasi anneghiamo nelle contraddizioni: retorica e realtà, per salvare le nostre anime e fermare il crimine, ma senza alcuna direzione. La contestazione contro il capitalismo è durissima: i più avidi si sono incaricati di guidare la chiamata per la quale alcuni devono lavorare mentre altri riposano; e la promessa di libertà alla fine si è tradotta solo in una fila per il pane. Nel frenetico ritmo funky di “Strength of your nature” ossessivamente si domanda: quando permetterai a te stesso di riprendere il controllo?

Nel pop-soul dal ritmo di bossa nova di “You’re the best thing” Weller ci consegna la sua chiave: potrei essere un re e rubare le cose alla mia gente, ma non vado verso quel potere folle. Tutto ciò di cui ho bisogno è che mi si lasci vivere a modo mio. È forse la passione, il desiderio, la forza per lottare e la “Headstart for happiness”? Sono così felice di trovarla questa pace dentro di me, mentre faccio il mio duro percorso, con un vantaggio iniziale, verso di te.

E quindi uscimmo a riveder le stelle. Anche se un momento è quel che dura l’eternità.

 

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