Sandro Perri – Tiny Mirrors
«Con questo nome potrebbe essere un terzino dell’Inter negli anni ‘80», dicevo a un mio amico per scherzare qualche tempo fa.
E invece Sandro Perri è un nome abbastanza conosciuto per i suoi progetti e le sue collaborazioni molto sperimentali sotto altri nomi, che poco o nulla hanno in comune con questa prima uscita da solista (cui seguiranno due dischi, di cui l’ultimo solo uscito pochi mesi fa). In comune con quei progetti c’è soprattutto il marchio Constellation Records: etichetta canadese che non pochi hanno imparato a conoscere dalla fine degli anni ‘90 attraverso i dischi di progetti come Godspeed You Black Emperor!, Do Make Say Think, Silver Mt. Zion e anche, per l’appunto, Polmo Polpo, Glissandro 70 e Off World, capitanati dal Perri in questione. Ma – spoiler alert! – siamo molto distanti musicalmente da quello che Sandro fa quando si presenta da solo, chitarra classica in mano e un carico di dolci arpeggi e fraseggi che compongono i 40 minuti del disco.
Quindi diciamolo subito: Tiny Mirrors è un disco di canzonette (cosa abbastanza inedita nel ricco catalogo della Constellation). È un disco di arrangiamenti tanto minimali quanto originali, mai e rigorosamente mai sopra le righe. A lui bastano la sua chitarra, la sua voce fragile (abile il lavoro di sovraincisione come in Double suicide) e qualche abbozzo di percussioni o tastiere per un risultato dai toni docili, senza alcuna sbavatura.
Se alcune canzoni restano forse non completamente sviluppate (The Drums, City Of Museums), altri pezzi invece sono pienamente là: diversi gli esempi in cui Sandro Perri arriva all’idea di canzone che aveva, e sono spesso pezzi che restano in testa dal primo ascolto. Double suicide e il suo groove sottocutaneo; Love Is Real, quasi una bossanova vellutata coi suoi arrangiamenti di fiati; Family Tree o You’re The One dai sapori jazz.
Ho detto canzonette, ma in realtà sono pezzi di cui, come un esercizio di decostruttivismo, viene esposta la fragilità e che cederebbero se si volesse loro imporre la brutale sovrastruttura di una forma-canzone.
Se avete ancora bene in mente i primissimi dischi di Devendra Banhart, Sandro Perri sa offrire esattamente quelle sfumature di folk (come in The Mime o City of Museums); e se minimalismo per voi significa che per emozionarsi non servono virtuosismi ma basta solo la capacità di farvi entrare in risonanza col suono di una mano che solletica quelle sei corde di nylon, Sandro Perri – che non è un terzino dell’Inter degli anni ’80 – ha fatto un disco per voi.