Sam Amidon – I see the sign
Quando a proposito di qualsiasi gesto artistico si usa l’espressione ‘rivisitazione dei classici’ a me personalmente vien voglia di mettere mano alla (metaforica) pistola. Ma ci sono le eccezioni, per fortuna, e il disco I see the sign del cantautore americano Sam Amidon, fa parte di queste.
Ripescando tanto dalla memoria collettiva quanto da quella privata, in questo disco il musicista del Vermont tira fuori dei pezzi letteralmente da antologia (chiedere ad un certo Alan Lomax), soffiando via la polvere accumulata nei decenni.
Non è difficile immaginarsi che, pescando a caso dalla collezione di vinili dei genitori (entrambi musicisti folk), Amidon abbia trovato tanti spunti e l’ispirazione per operare una sorta di restaurazione, un aggiornamento al 2010. Così’ il musicista sceglie dei pezzi e decide di rimetterli a nuovo, non solo ri-arrangiandoli ma ri-costruendoli (de-costruendoli, come dicono quelli bravi).
Solo così può succedere che vecchi inni religiosi accompagnati da arrugginiti riff di banjo, diventano in I see the sign delle esplorazioni country-folk sublimi.
Certo c’è da ringraziare il prezioso apporto di Valgeir Sigurðsson e Nico Muhly alla produzione e agli arrangiamenti rispettivamente. Non due a caso, ma entrambi compositori e membri del collettivo Bedroom Community . Tra le loro mani è passata tantissima musica indie di ogni genere – da Bonny “Prince” Billy a Ben Frost, la lista è davvero lunga.
“I see the signs/Hey, Lord, time draws nigh” è il mantra che viene ripetuto nella title-track con in sottofondo una sezione ritmica minimal-jazz, un dolce arpeggio acustico e un’orchestrazione altrettanto minimal.
Ritmi digital-tribali, invece, nel pezzo di apertura (How come that blood): il testo è una sorta di rivisitazione della storia di Caino e Abele, un inno religioso la cui ritmica resta serrata con gli archi che si arrampicano e avvolgono la cupa storia di un fratricidio. Restano sostenuti i ritmi in You better mind, e qui Amidon sfrutta l’aiuto alle voci di un’altra folkster che conosciamo, Beth Orton (presente anche in altre parti del disco, e – soprattutto – presente nella vita di Sam Amidon in quanto moglie).
Eccezione dentro l’eccezione (vedi sopra): siamo quasi alla fine di queste passeggiate country-folk, quando il musicista riprende un pezzo pop di fama mondiale quale Relief di R. Kelly. Era il 2010, viene lecito chiedersi se lo avrebbe fatto oggi, alla luce degli scandali che hanno travolto la stella del r’n’b, ormai in declino. Anche qui il pezzo si trasforma nelle sue mani e l’originale scompare proprio grazie ai soliti impeccabili arrangiamenti di Muhly.
Considerando che si tratta di brani molto diversi tra loro, c’è un’uniformità impressionante nel disco che non è affatto un limite, anzi l’opposto: tutti o quasi sono pezzi che si sviluppano verso un climax morbido, una spirale musicale che si innalza prima di far tornare quelle canzoni nei cassetti della storia della musica country-folk americana.
Ringraziamo Sam Amidon per averci fatto ascoltare musica che avremmo altrimenti ignorato.