Motorpsycho – Let Them Eat The Cake
Bent, Snah e Geb: per tanti, davvero tanti fan italiani i Motorpsycho sono loro tre. Tre ragazzi venuti da Trondheim, Norvegia a metà degli anni ‘90 con un solo scopo: scompigliare le carte e rimettere in gioco un certo paradigma di cosa si possa o non possa fare nel panorama del rock alternativo europeo.
Una discografia sconfinata (sfido a trovare rivali), fatta di album, doppi album, tripli album, live (i famosi Roadworks), colonne sonore di film inesistenti (The Tussler), collaborazioni…
Ma più che la quantità, ci sarebbe qui da scervellarsi per comprendere da dove origini la qualità dell’ispirazione di quello che riescono a offrire e la continuità con cui lo fanno. Certo, come per tutte le band, ci sono album più o meno riusciti, ma nel loro caso, a partire dal debutto quasi metal (e poteva essere diversamente?) di Demon Box, scorrendo il catalogo disco dopo disco, si può osservare una chiara evoluzione verso qualcosa di sempre più maturo e raffinato, risultato sempre di duro lavoro in studio e fuori.
Nel 2000 una delle svolte, con l’uscita di Let them eat the cake: non mi è ancora chiaro a cosa si riferiscano con la citazione thatcheriana che offre il titolo, era invece forse chiaro che si trattava della fase in qualche modo finale del trio a nucleo della band. E quindi, si saranno detti, tanto vale azzardare. Il disco infatti si stacca dalla traccia segnata dai precedenti e spicca un salto quantistico, portando le intuizioni di psichedelia, progressive e sperimentazione, sempre presenti, verso un nuovo orizzonte. I suoni si fanno caldissimi, il basso compresso rimbomba a meraviglia, abbondano gli archi, e se sin dall’inizio della loro carriera una chiara influenza prog era sempre stata presente, qui si può parlare di pop, con riferimenti sempre alti che spaziano dai Beach Boys ai Pink Floyd.
Appena premuto il tasto play si viene invasi dall’attacco di archi di The Other Fool, con un impatto che crea un po’ di scompiglio: il pezzo è un inseguimento tra gli archi e la sezione ritmica che porta alla coda finale in un groviglio musicale sempre più fitto.
Walkin’ With J. è una divertente fanfaronata in cui c’è spazio per una esegesi sarcastica delle scritture (J. sta per Jesus e ci si chiede “What’s the book you read / Compared to what he said?” e poco dopo “Would we lie to you / Fill your head with lies? / It’s all written in this book”).
Si saranno divertiti davvero molto a registrare questo disco, come in Never let you out che più che alla Norvegia rimanda al rock californiano più scanzonato degli anni ‘70. Ma anche pezzi più raffinati e complessi come Upstairs-Downstairs o Stained Glass sono particolarmente ispirati, per non parlare della cavalcata strumentale di Whip that ghost, nata chissà forse durante uno dei loro momenti di improvvisazione che chi ha visto dal vivo o ascoltato nei Roadworks, ha imparato ad apprezzare.
L’eco di questa nuova ispirazione che parte con questo disco, durerà per altri due album, e poi sara’ già l’ora di andare oltre: Snah lascia la band, spariscono i toni pop e si torna a colori più scuri, si torna al rock, al progressive delle origini. Questa parentesi pop, il cui apice resta Let them eat the cake, funziona oggi come ciliegina sulla torta (sic) della loro discografia.
I Motorpsycho rimangono una delle band più sottovalutate al mondo (ma per fortuna non dalle nostre parti), a cui è davvero difficile star dietro; non si fa mai torto a riscoprirli, ricalcando i confini della loro produzione, cercando di intravedere dove possano ancora arrivare.