Moonface – Julia With Blue Jeans On
Due sono le facce della luna. Una ci osserva e l’altra resta nascosta al nostro pianeta perennemente. Quante siano le facce di Moonface, moniker di Spencer Krug – cantante, tastierista ed artefice della indie band canadese Wolf Parade – non è possibile dirlo, vista la serie sconfinata di progetti in cui è coinvolto. Dopo Expo ‘86, l’ultimo lodevole album dei Wolf Parade prima di un lungo hiatus – Krug ha completamente stravolto la sua vita.
Intanto lasciando il Canada per stabilirsi in Finlandia, facendo uscire a distanza di un anno l’uno dall’altro due album sotto il nome Moonface per la Jagjaguwar. Messi da parte sintetizzatori e tastiere del progetto apripista, nel 2013 viene alla luce Julia With Blue Jeans On, un album senza fronzoli, solo voce e piano, in cui Krug decide di mettersi a nudo raccontandosi dentro una storia d’amore in cui l’ombra lenta ruba la scena – come in una Luna calante.
Lontano da struggimento e puro sentimentalismo, questo è il racconto consapevole del proprio essere un “Barbarian, sometimes”, un animale tanto autodistruttivo quanto pronto ad immolarsi sull’altare dei controsensi. Lo stesso che ha bisogno di celebrarsi per quelle piccole conquiste di sobrietà che gli fanno intonare sul finale dell’intro “Darling is finally Fall, finally I have not destroyed anything at all”.
Quello che è scampato diventa quindi il proprio bagaglio – con cui ricominciare altrove- come nel pezzo Everyone’s Noah, Everyone is the Ark: in questa arca, dove sappiamo che per salvarsi “Everyone has to gather souls around them, to feel useful, and loving, and loved”, si avverte tutta la precarietà del trascinarsi senza saper bene verso dove. Più avanti, in You gotta love the house you’re in, troviamo un’ammissione di colpa fatta a se stesso in primis, per non essere stato in grado di render quell’arca un posto da poter chiamare casa. Nonostante quel demone ben intenzionato che alberga in lui ed in nome del quale confessa che “I would like to be more for you than just a ghost lighting up in the courtyard”, Spencer sa bene che alla fine quello che ha da offrire nei suoi momenti lucidi non va oltre uno “starless future, folklore past”.
Procedendo nell’ascolto, si passa per November 2011 – un mese che ci immaginiamo non facile, se Krug è addirittura arrivato a chiedere alla propria compagna di “Set fire to my music, It wasn’t much good anyway”. In questo abisso condiviso, si è disposti a sacrificare tutto come prova ultima, anche questa musica che mai ci sogneremmo di definire non un granché.
Tutto l’album è pervaso da una voglia di espiazione, di guidare la mano del macellaio alla gola dell’agnello sacrificale per uccidere tutto quello che non si ha avuto la forza di costruire. E sgorga sangue e rassegnazione, giustificazioni ed ineluttabilità, come se diverso questo amore non avrebbe proprio potuto essere.
E se le ambientazioni create da Krug sembrano strizzare l’occhio quasi a Philip Roth, l’impianto musicale che le accompagna è fatto di un minimalismo classico che dipinge melodie struggenti con pochi accenni, come un Debussy contemporaneo.
L’apice di questa commistione lo si trova in Dreamy Summer, evocazione di una stagione nuova che resta solo sognata, sperata. In una tensione tra il proprio sentirsi morire e la vita a cui tendere fuori verso l’altro, il piano di Krug ci trascina in un allegro che lentamente si spegne su una idea di onnipotenza di coppia sfiorata.
Ascoltare Julia With Blue Jeans On è come assistere ad una lotta con se stessi, familiare e toccante. Gli estremi si rincorrono senza trovare un equilibrio, una pace o delle pareti immacolate. Morte e vita, autodistruzione e innocenza, speranza ed autocommiserazione sono presenti in ogni pezzo – come le due facce lunari che non dialogano mai. Questo album è un mood costante da cui è meglio astenersi se si è alla ricerca di un sottofondo che intrattenga. Bisogna sedersi e non far altro, dargli tempo e malinconia, così da farsi trovar pronti al prossimo sciame di meteoriti.