Mogwai – Rock Action
Premessa: se il nome della band di Glasgow è oggi abbastanza famoso, non è certo grazie a questo disco.
Nel 2001, quando esce Rock action, i Mogwai avevano alle spalle solo due dischi (il sempre venerato esordio di Young team, e l’acclamato seguito Come on die young), grazie ai quali si erano però già riservati un posto d’onore nella scena post-rock internazionale. Rumore, scorribande distorte lunghe 20 minuti e più, e soprattutto intrecci e fraseggi di chitarre incrociate: i Mogwai già allora avevano tirato fuori dal cilindro diverse intuizioni musicali azzeccandoci quasi sempre. Una band che aveva già un seguito quindi, e che avrebbe da lì a poco generato cloni in ogni parte del mondo, dal Giappone fino alla nostra penisola.
Ma Rock action è dove avviene una svolta molto sottile, a mio avviso, che rende questo, che ad oggi è la produzione più breve degli scozzesi (solo otto tracce di cui due di solo un minuto), un disco da riascoltare a distanza di anni.
Con l’eccezione di You don’t know Jesus, che a metà disco sembra un richiamo degli album precedenti (sofisticato intrigo di chitarre in climax ascendente – il loro pezzo forte insomma, come a dire “guardate che siamo sempre noi, che vi credevate!”), si può dire che i volumi delle chitarre sono più bassi rispetto a quelli a cui ci avevano abituato.
È anche innegabile che nessuno nel 2001 poteva prevedere la presenza di un pezzo con un vero e proprio cantato.
Si tratta di Dial:Revenge, con la voce affidata a Gruff Rhys, cantante del gruppo gallese Super Furry Animals, che propone proprio un testo nella sua lingua madre, il gaelico gallese. È una ballata acustica molto malinconica, nata da chissà quale ispirazione o esperienza, che resta abbastanza isolata nel catalogo molto variato della produzione mogwaiana ad oggi. Sul testo so solo dirvi che si basa sull’idea che un gallese che debba comporre un numero di telefono in una cabina telefonica si possa confondere cliccando sul tasto ‘dial’, in quanto la parola nella sua lingua significa ‘vendetta’ (o almeno così mi pare di ricordare).
Sono tre i pezzi portanti del disco: Take me somewhere nice, con David Pajo degli Slint a sussurrare un testo tanto evocativo quanto gli arrangiamenti di archi tutt’attorno. Poi la già citata You don’t know Jesus, e poco dopo 2 rights make 1 wrong, una cavalcata cinematica che prova a definire una versione soft del paradigma sonoro stabilito coi dischi precedenti.
Su Secret pint, in chiusura, torna un cantato e torniamo in acustico: pianoforte, chitarra e voce creano un’ambientazione minimalista corredata da archi e una sezione ritmica secca e astratta, molto riuscita.
Siamo nel 2001 e siamo in Rock action (che sarà anche il nome che la band darà alla propria etichetta musicale) ed è forse utile sottolineare l’assenza dell’abusato prefisso post-: un’azione rock ancorata nel presente, proiettata in chissà che futuro.