ELP – Tarkus

Ogni volta che vi sorprendete a pensare che il Progressive Rock sia un genere noioso o sopravvalutato, inginocchiatevi subito sui ceci e restateci finché non avete ascoltato tutto Tarkus, il capolavoro di ELP, quei geni che l’essere umano, non trovando alternative più adeguatamente divineggianti, si è ridotto a chiamare Keith Emerson, Greg Lake & Carl Palmer.

Alla faccia della musica liquida che oggi sembra esaltare le etichette discografiche e che esaurisce tutto il proprio contenuto in tre (ripetitivi) minuti, Tarkus comincia con un’agilissima suite di venti minuti. Questi venti minuti sono così belli, strazianti, pieni e perfetti, che l’album intero potrebbe anche chiudersi qui. Per fortuna, però, quando le divinità sono ispirate, non si fermano. E compongono il capolavoro in sei (sei) giorni. Un po’ come a Guccini bastò mezz’ora per regalarci La Locomotiva.

Nato dalla crasi tra Tartarus e carcass, il nome Tarkus si riferisce al mostro che domina la copertina del disco: un gigantesco carro armato con testa e corazza di armadillo; d’altronde, il confine tra genio e follia è praticamente inesistente.

Nell’interno copertina, William Neal (autore del disegno), racconta la storia del mostro, nato da un uovo ai piedi di un vulcano in eruzione e pronto ad affrontare e distruggere ogni mutante che trova sul suo percorso.

Fanno riferimento a questo racconto originale tre tempi della suite: il primo, Eruption; il quinto, Manticore; il settimo (e ultimo), Aquatarkus. L’unica creatura in grado di prevalere su Tarkus è la “manticora”, un essere mitologico con testa umana, corpo di leone e coda di scorpione.

Non è un caso che sia una creatura senza parti meccaniche, ma interamente animale, a sconfiggere il mostro. Infatti, il grande leitmotiv che percorre l’opera è il conflitto tra il Bene e il Male che affligge l’essere umano, da sempre vittima – e allo stesso tempo artefice – di guerre e di crudeli amenità. Lake, autore di tutti i testi, dipinge il dissidio in tutte le sue sfaccettature.

Per esempio, il secondo tempo della suite, Stones of Years, parla della cecità e della sordità dell’uomo di fronte ai propri crimini (Are your ears full? / You can’t hear anything at all). Mass, il quarto, si scaglia contro la “Messa” di una Chiesa malsana, ipocrita e corrotta (The pilgrim wandered in / Committing every sin that he could). O ancora il sesto, Battlefield, che condanna il vile attaccamento alle armi come mezzo per garantire e stabilire la “pace” (Every blade is sharp, the arrows fly / Where the victims of your armies lie).

È ora di tirare il fiato: il trio britannico comincia a sentire la pressione dell’oscurità, così decide di allontanarsi dall’atmosfera angosciante e inquietante – ma comunque straordinaria, s’intende – della suite, per svagarsi con il ritmo sincopato del ragtime tanto caro a Debussy. Anche in questo caso, però, un velo di turbamento si cela dietro all’apparente spensieratezza.

Jeremy Bender (cioè Jeremy “il frocio”, titolo sobrio e morigerato) è la storia di un depravato che, nei panni di una suora, quasi violenta la superiora, per poi scoprire di avere a che fare con un altro travestito. Una vicenda decisamente non convenzionale, ma nulla è prevedibile in questo album; ed è pur vero che il ragtime nasce in quartieri americani a luci rosse.

Lo stile jazz si trascina fino al brano successivo, Bitches Crystal, il cui testo è nuovamente in netto contrasto con la musica energica e vitale che lo accompagna. L’immagine cantata da Lake vede infatti protagonista una presunta “strega”, una veggente, vittima ideale delle brutalità compiute ai tempi dell’Inquisizione.

È però ancora una volta il momento di cambiare scenario, di abbandonare cioè eretici e torture, per mettere invece piede in chiesa.

Una chiesa questa volta pura, incontaminata. È la chiesa di San Marco a Londra, che presta il proprio organo a Emerson affinché le sue dita possano espiare i peccati commessi in precedenza. Keith ne approfitta per omaggiare il Re della tastiera, colui che ogni pianista che si rispetti ha prima o poi incontrato nel proprio percorso: J.S. Bach. La Toccata e Fuga bachiana è l’unico modo – The Only Way, appunto – per riscattarsi, per ricominciare, ma senza mai dimenticare: la memoria è fondamentale per andare avanti, come ricorda il testo di Lake che “rimprovera” Dio per la sua negligenza di fronte alla Shoah (Why did he lose six million Jews?).

Solo in uno spazio infinito, in un Infinite Space – con un catartico e primitivo ostinato che ricorda la dissonante suite Szabadban di Bartók, l’uomo può rinascere.

Anche Giorgio Gaber condivide il «desiderio che in una terra sconosciuta ci sia di nuovo l’uomo al centro della vita». ELP chiamano questo stesso anelito A Time and a Place, cioè un tempo e un luogo in cui armonia e silenzio riescono ad avere la meglio su rabbia e violenza.

A questo punto, un disco del genere può finire solo in due modi.

Uno: catastrofe assoluta. Distruzione. Addio.

Due: resurrezione, purificazione, felicità.

Strizzando l’occhio alla speranza di gaberiana memoria, ELP si gettano sulla seconda opzione, realizzando un finale (Are You Ready Eddy?) in pieno stile rock ‘n’ roll. Solo dei geni assoluti possono partire dai Pink Floyd, passare per Bach e arrivare ai Beatles. Ed è con questa ballata follemente improvvisata, in cui Emerson e Palmer rispondono allegramente in coro a Lake, che Tarkus si chiude.

L’innocenza riconquistata con fatica e dolore, la salita al cielo dopo aver attraversato il Tartaro.

Se questo album non entra di prepotenza nella vostra migliore classifica dei dischi più belli di sempre, forse il Prog non fa per voi.

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