Cor Veleno – Lo Spirito che suona
Se pensate che il rap sia ormai musica solo per ragazzini, se pensate che sia tutto forma e niente sostanza o, peggio, se pensate che sia una moda passeggera destinata a scomparire insieme ai risvoltini nei pantaloni e ai selfie stick… beh, non avete capito un cazzo. E, per rendervene conto, non dovete far altro che ascoltare l’ultimo lavoro dei Cor Veleno.
Un vero e proprio testamento postumo di Primo Brown, che però non ha nulla di patetico. Al contrario, ne Lo spirito che suona l’ex compagno del DJ Squarta e dell’MC Grandi Numeri – seppur prematuramente scomparso alla fine del 2015 – è genuinamente presente, più vivo che mai. Ascoltando, uno dopo l’altro, i numerosi inediti dell’album, è facile immaginarlo in studio, a chiudere rime con tutta la fótta che lo contraddistingueva.
Non siamo, però, di fronte a un concept album: più che un tributo, quello pubblicato a ottobre 2018, dopo anni di registrazioni, è un consapevole e voluto passaggio di consegne. Se già, con Milano—Roma pt. 2 – un singolo del 2016 poi inserito nell’LP More Hate, il duo formato da Egreen ed Er Costa aveva raccolto l’eredità di così illustri predecessori (da loro stessi benedetti, nell’intro del brano), adesso i featuring del nuovo album mettono in chiaro, una volta per tutte, un concetto. Non esiste alcun antagonismo tra vecchia scuola e nuova scuola: questa musica cambia, perché è nata per raccontare il proprio tempo.
È il rap, bellezza, e tu non ci puoi far niente. E il fatto che abbia cannibalizzato altri generi, diventando in qualche modo il pop del nostro tempo, non ha fatto altro che rivitalizzare l’interno panorama mediatico.
Eccoli, dunque, gli ospiti scelti dei Cor Veleno: dai più prevedibili Gemitaiz e Mezzosangue – se non altro perché entrambi romani – ai più azzardati Johhny Marsiglia e Marracash (che forniscono, qualora ce ne fosse bisogno, ancora più street cred all’insieme), fino all’inaspettato Giuliano Sangiorgi (sic).
Il tutto è aperto e chiuso da due tracce, L’antifona e A Pieno Titolo che, pur essendo quelle più conservative fra tutte le diciassette, sembrano paradossalmente le più adatte a esprimere la poetica del gruppo. Riascoltarle adesso è come fare un tuffo nel passato, ai tempi in cui il rap non era in testa alle classifiche della FIMI e non spadroneggiava nei talent show televisivi.
Fuck the nostalgia, però, e testa all’oggi. Perché ciò di cui stiamo parlando non è soltanto musica, è — come si suol dire — lifestyle. Passano gli anni, ma lo spirito Protestante portato in scena dal rap (non serve nessuna Chiesa, tutti possono essere sacerdoti) è ancora valido. E la conferma la garantiscono, a fine disco, i versi di Danno (membro dei Colle der Fomento, altra storica formazione capitolina).
‘Sta roba buca la bolla, butta giù totem e tabù
Ogni schiavitù
Quindi se la spingi, spingila di più
E porta la crew del gioco fino alla fine nel fuoco
Nell’epicentro del rogo
Sotto al palco col fomento in mezzo al pogo
Perché qui è selvaggio, zi’
E non ci trovi déi, ma solamente rime a benedirci