Queens of the Stone Age – Songs for the Deaf

I need a saga! What’s a saga?
It’s Songs for the Deaf, they can’t even hear it!”

Se i Queens of the Stone Age non hanno bisogno di presentazioni nella maggior parte dei casi, è grazie a questo loro terzo album, Songs for The Deaf.

Conobbi per la prima volta i Queens of the Stone Age quando la mia amica Marta comprò per sbaglio una loro compilation credendo si trattasse di un disco dei Queen. Ricordo ancora l’impazienza di scartarlo per poterlo ascoltare il più presto possibile, la custodia passata fra le mani, i primi occhi che si corrucciano posandosi su alcuni cupi dettagli della copertina, fatta di blu scuri e grigi antracite – e poi il disco parte, e dalle casse esce il deserto della California in una notte di penombra lunare. Decisamente non erano i Queen, e noi non eravamo preparati, visto che ancora oggi non ricordo di che disco si trattasse esattamente.

Forse a questo punto vi aspettate una descrizione del genere di musica che potreste aspettarvi premendo PLAY; ma le descrizioni in questo caso non farebbero davvero fede al caso particolare. Nel senso che se li andate a cercare, troverete che la loro musica è classificata come stoner rock, o più genericamente alternative rock, anche se di fatto si tratta appunto di mere etichette. Quindi, è forse più semplice metterla così: nelle zone proto-desertiche del sud-ovest degli Stati Uniti d’America degli anni ‘90, tra California e New Mexico, si suona un rock pesante e ipnotico, fatto di riff e distorsioni ma anche di loop, sincopi e chi più ne ha più ne metta. I Kyuss sono il prototipo assoluto di questo mondo. E guarda caso leader dei Kyuss è proprio lo stesso Josh Homme che darà vita ai Queens of the Stone Age.

Quindi, fatte queste precisazioni, passiamo al disco.

Entrare nel dettaglio delle tracce cercando di “descriverle” lascia a mio parere il tempo che trova: questo è uno di quei dischi da sentire letteralmente con tutto il corpo, scuotendo la testa ai ritmi percussivi di chitarra e basso, mentre le voci, a tratti corali e armonizzate, a tratti cupe, distorte e gutturali, ci riportano lo sguardo in basso, ai nostri piedi e alla strada che stanno percorrendo. Questa formazione dei QOTSA (per i veri fan), è senza dubbio una delle più storiche e stellari: a parte Homme alla voce solista, chitarra e pianoforte, troviamo Nick Olivieri al basso e backing vocals, mentre alla seconda voce solista (che si alterna e affianca a Homme) e batteria troviamo nientepopodimeno che, udite udite, rispettivamente Mark Lanegan e Dave Grohl. Tutte persone che si conoscevano a prescindere dai vari progetti in cui erano implicati, e che hanno collaborato assieme non appena hanno potuto.

Senza dubbio la presenza di Lanegan e Grohl ha fortemente contribuito a creare e sostenere il momentum che ha fatto sfondare questo disco; ma le maggiori responsabilità di questo successo vanno a Homme e Olivieri, che hanno immaginato e scritto i pezzi. Ed era sempre da Nick che proveniva la voglia di creare una sorta di concept morbido attorno alle prime tracce, con cui impostare, letteralmente, il percorso dell’album e degli ascoltatori.

Sì, perché l’idea di questo disco è che ci si stia mettendo nella propria macchina-da-acquario per andarsene da LA a Joshua Tree, nel bel mezzo del deserto, per fare cose non meglio definite.

Ma l’autoradio si comporta in maniera strana, passando solo stazioni assurde, perlopiù ispaniche o religiose, fino a quando il DJ Kip Kasper di KLON LA («LA’s Infinite Repeat!»), voglioso di una saga – una vera saga! – non lancia l’inizio del disco. Ed è così che continua il gioco, con l’apparizione di vari assurdi e strambi DJ di ogni tipo che ogni una o due canzoni intervallano l’incedere di questo loose concept, come piace definirlo a Homme stesso, che all’inizio neanche voleva impostarlo così; la paura era che forzare un concept di qualche tipo sul progetto avrebbe danneggiato il valore intrinseco dei singoli pezzi. Ma apparentemente alla fine Olivieri ha avuto la meglio. E credo siamo tutti molto contenti di questo. Quindi, mi raccomando, per questo album PLAY LOUD non è solo un modo di dire, ma una vera e propria necessità.

 

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