The Triffids – Born Sandy Devotional
Dalle sabbiose sconfinate coste di Perth, che si affacciano sull’immensità dell’Oceano, spinti dagli echi delle rivoluzioni promesse e mancate, salpano nel 1978 due ragazzi, Dave McComb e Alsy MacDonald, nel loro avventuroso viaggio verso la musica d’oltreoceano. Si chiameranno The Triffids.
Il loro baule è pieno di vecchi dischi di musica pop e rock, dal soul al blue-bit della subcultura giovanile inglese dei fifties, al pop e alla psichedelia dei sixties, sino al punk e al garage-rock dei seventies. E questi ragazzi, in un incrocio fra pop punk-rock d’ispirazione kinksiana e vene psichedeliche cavate dai Doors e dalla Velvet Underground, trovano una formula tutta loro per lanciare al mondo un messaggio personale e politico.
Il mare mette duramente alla prova chi col coraggio a quattro mani prende il largo. È il 1986 quando i ragazzi di Perth lanciano Born Sandy Devotional, il loro primo vero album: dieci tracce di un pezzo di vita consunta, inalata, a tratti soffocata, ma che non abbandona l’idea della fedeltà a se stessi e ai propri sentimenti, la devozione verso quella natura selvaggia e quel suono sordo, baritonale, profondo, che sgorga nelle viscere della terra ed affiora con la prepotenza di un vulcano. Senza orpelli né ricercatezze, è invece il momento del basso, della batteria dal ritmo ossessivo e delle corde delle viole e dei violini per volare alto come i gabbiani.
“The Seabirds”, la prima traccia dell’album, ha il suono potente delle onde dell’oceano che filano dritte nelle note di una chitarra elettrica. Ma la vita e l’amore hanno un retrogusto di morte. Il presagio è presente lungo tutto il disco: ha gridato agli uccelli marini: “Prendetemi adesso, non ho più paura di morire”, ma fingevano di non ascoltarlo e stavano a guardarlo con i loro duri e luminosi occhi neri. “The Estuary Bed”, che al ritmo precedente aggiunge i suoni dello xilofono hawaiiano, pone una domanda tremenda: a cosa serve la memoria ricoperta dal limo dell’estuario?
Se siamo pronti ad entrare nelle disperate dipendenze, mentre le stelle si offuscano e il buio si chiude attorno a noi, scopriamo nella psichedelica “Lonely Stretch” di esserci persi. Un brivido corre lungo la schiena quando la vita fa strani scherzi, perdi le cose più care, l’amore si trasforma in ossessione e le pistole ti esplodono nel petto. Allora, tra i Birds e le distese di sabbia e deserto, ho urlato le mie viscere al sole sulla strada spalancata. Il messaggio del nulla affonda nelle sabbie della beat generation che emette un grido.
È un messaggio viscerale, profondo, a tratti cupo, che scivola su ogni piega della pelle; sanguinoso zampillìo di sentimenti calpestati, feriti, umiliati, di sogni infranti, spiaccicati nel muro eppur vivi.
“Personal Things” è uno psichedelico chiodo che si avvita su se stesso con tutti i segreti più cari: puoi cancellarlo, puoi grattarlo via, puoi berlo, puoi bruciarlo.
Così nella splendida “Stolen Property”, quella dell’amore rubato, forse la traccia più significativa dell’album, con l’impronta dei Kinks virata alla psichedelia, le viole e i fiati simulano il vento, Dave parla a se stesso sotto la pioggia scrosciante. Se l’uomo diventa cattivo per difendersi con la sua corazza è perché così non puoi più buttargli addosso i tuoi cani.
Eppure, in certi sguardi, tenera è la notte perché dove sei tu sta facendo luce. È quasi l’alba, il cielo si colora di rosa e la nostra bisaccia consunta è pronta per tornare a casa. Forse con qualche dracma di speranza in più.
Come novelli Ulisse viaggiano nel mare della vita per dare un senso al dolore, una speranza al futuro e una carezza all’amore