Sun Kil Moon – Tiny Cities

Identificare sbrigativamente come cover i pezzi in Tiny Cities sarebbe banalizzare le intenzioni e minimizzare i risultati di quello che si può solo definire il risultato dell’esercizio di una forte ossessione, palpabile all’interno di questo disco firmato Sun Kil Moon.

Eppure è vero che siamo davanti a undici canzoni estratte dal repertorio dei Modest Mouse, che sono qui completamente riadattate, ri-arrangiate e in sostanza traslate dal mondo da cui provengono (un rock indie a sfumature tra il punk e il post rock della band di Portland) verso il folk cantautorale proprio a Kozelek, da suonare o ascoltare seduti in un portico in legno tra un sorso di birra e un altro.

Dietro il nome Sun Kil Moon troviamo Mark Kozelek, prolifico songwriter americano che da una paio di decadi, iniziando col progetto Red House Painters, anima la scena musicale americana con un folk particolarmente cupo, minimalista nei mezzi (chitarra e voce) e massimalista nei risultati (quando i suoi testi sono puro storytelling).

In Tiny Cities, apparso nel 2005, dei pezzi originali restano per lo più i testi, mentre il resto è scomposto e riassemblato in qualche modo travisato senza però operare alcuna violenza: quei testi erano pronti per questo processo.

Così “Never ending math equation” diventa una ballata acustica con tanto di slide guitar ad accentuare i passaggi da una strofa all’altra; chi conosce il pezzo originale non può che chiedersi che ne è degli scatti di chitarra elettrica e del giro di basso rimbalzante ad accompagnare la voce e il carisma di Isaac Brock (leader dei Modest Mouse).

Stesso discorso per l’arpeggio che si srotola in “Tiny cities made of ashes”: se si perde il groove della sezione ritmica della versione originale, si guadagna un effetto ipnotico della ripetizione delle note, e il testo che sembra la ripetizione di un mantra.

A chi non sapesse che sia una cover, l’accostamento arpeggio/testo in “Ocean breathes salty again” sembrerà pura poesia: “your body may be gone / I am going to carry it in… in my soul”, melanconico omaggio a qualcuno di caro scomparso, forse suona meglio tra le note toccate su una chitarra acustica che nell’arrangiamento originale up-tempo.

“Space travel is boring” che nell’originale non arriva a due minuti, acquista qui più spazio per snocciolare la storia della solitudine di una astronauta, costretta a parlare a se stessa allo specchio.
Succede l’opposto a “Convenient parking” e all’apertura con “Exit does not exist”: in questo caso si applica una compressione e una accelerazione, ma anche qui con il rispetto assoluto per i testi, adattandoli alla loro nuova sede come piante alloctone.

Il risultato è un elegantissimo omaggio ad una band che nel 2005 aveva sfornato il disco della consacrazione (Good news for people who love bad news) e stava per fare il salto di maturità accettando un ruolo più mainstream. In questo disco, i pezzi della band di Portland vengono esposti alla loro fragilità di base, esaltata dagli arrangiamenti essenziali.

 

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