Spacemen 3 – Taking Drugs To Make Music To Take Drugs To
Taking Drugs to make music to take drugs to… è uno splendido bootleg del 1990 uscita per la Father Yod che raccoglie diverse versioni più o meno storiche di alcuni intramontabili classici del duo Pierce/Kember. Un disco che conferma la lungimiranza sonora degli Spacemen 3 e ci fa capire come siano stati alla base di numerosissime produzioni grazie a quel suono psichedelico così minimale e lo-fi che tanto si tenta di imitare ancora oggi.
L’apertura è affidata alla traccia The Sound Of Confusion e non poteva essere altrimenti. Dalla confusione infatti siamo iniziati al lungo viaggio, una confusione che avvolge e protegge, canalizza senza pietà pensieri orami sciolti. Altro non è che un inno alla perdizione, al lasciarsi andare, al boicottare con una vecchia chiave inglese i freni inibitori. Estatica la cavalcata tra le macerie sonore, il suono arriva liquido, potente e invasivo come uno tsunami. Incredibile pensare che Il nostro Signor Pierce non avesse neanche 20 anni quando compose codesto album, eppure alle nostre orecchie arriva già un sound maturo, consapevole, magari più grezzo rispetto al progetto postumo, Spiritualized, ma per questo motivo più viscerale e trascinante. Prendiamo aria e ci immergiamo nell’ascolto, l’incedere diventa ossessivo e provocante, si affaccia un blues, si affacciano i Red Krayola e massimale e minimale rischiano di sfiorarsi.
Ok si, si parla di droga, sicuramente si, ma la droga come strumento al trionfo ultimo, come carriola dove lasciarsi scaricare nella fossa dell’estasi. E il disco va via a snocciolarsi a suo agio come pochi, forse dovremmo mantenere il controllo, ma stiamo già volando in un sonico materasso, ci crogioliamo nell’acido, nello sprimacciare un’oca, fluttuiamo oh oh oh, siamo già nuvole e il disco non è neanche a metà. Non avrebbe molto senso adesso parlare di quale pedale distorsore sia stato usato così come non avrebbe molto senso disquisire su quale tipo di sostanza allucinogena sarebbe effettivamente indicata per l’ascolto di questo disco (probabilmente LSD). Sanzione doverosa tra le tante perle per Come Down Easy, pura luce che si strofina al buio, l’umore che vortica e attende nell’ipnosi, il blues americano delle sporche paludi delle Carolina fa l’amore con la psichedelia inglese anni ‘60. Qui il roccheroll si dilata, perde coscienza, rimane annebbiato, quasi stordito da troppa grazia. Non è una sveltina nel bagno baby, stanotte ti comprometti e domani mattina seguirai un altro gallo. Da citare anche Mary Anne, splendida e bizzarra cover di Juicy Lucy in forma di ballata primordiale, mantra minimale intriso di lisergica saggezza sixties, in cui le chitarre divengono soldatesse voluttuose in perenne inviluppo su loro stesse. Siamo nel cuore di una tempesta fatta di visioni translucide e ammalianti, feedback arrivano dall’infinito e all’infinito ritornano. Le chitarre naturalmente fanno da protagoniste, senza nulla togliere alla voce ispiratissima che sembra cantare gospel a divinità aliene in questo viaggio nel godurioso Nulla. Things’ll Never Be The Same invece ti porta il cervello al trotto, e gruppi come Black Angels devono intere carriere a brani come questo.
Ok, si va bene, si parla di musica, sicuramente è quello che esce fuori, ma la musica finalizzata alla gloria estrema, tappeto volante da cui affacciarsi appena e vedere il panorama scintillante che si estende sotto. Il vero capolavoro degli Spacemen 3 è riuscire a mantenere il mistico equilibrio tra sfrenato scazzo e inossidabile vitalità.
L’album è finito e rimango ad assaporare il senso di vuoto che lascia il silenzio e mi pare ovvio che non è molto probabile che riesca a SCRIVERE veramente qualcosa al riguardo, ma la vita scorre via e ogni tanto si ci può concedere uno spazio per prendere droghe per fare recensioni per prendere droghe per…
Questo LP è eroina pura. Altro che LSD.