Protomartyr – Relatives in Descent
Questa è la storia di una serata di marzo del 2018 passata in un bar per assistere alla tappa in città di una delle band post-punk statunitensi più influenti degli ultimi anni. Il tour è quello messo in piedi con la Domino Record per il lancio di Relatives in Descent. Loro sono i Protomartyr.
E quindi dicevamo del bar. Non suona neanche così male del post-punk in un bar, se pensi a due chitarre veloci ed a messaggi che sanno di guida veloce al riot. Però lì sul palco c’è la band che ha buttato fuori uno degli album migliori del 2017. Lì svettano impalati i quattro di Detroit facendo sembrare così minuscola quella location da mettere le mie aspettative in iperventilazione.
La miccia del disagio di quel contesto non è lontana però dalle atmosfere che attraversano tutto Relatives in Descent. Un album volutamente più meditato e cervellotico rispetto al lodevolissimo precedente The Agent Intellect e che fa spazio a temi tanto esistenziali quanto di denuncia giocando con riferimenti filosofici alti e angosce dell’uomo comune.
Il pezzo d’apertura “A private understanding” contiene almeno tre cambi di tempo in un crescendo che ricorda quasi un salmo religioso. Tra Elvis ed Eraclito l’Oscuro ci ritroviamo ai piedi di un fiume che non si muove, non scorre. Quel fiume non può che essere il Flint, al centro di una famoso disastro ambientale e scandalo politico che fa tuonare a Casey una citazione tanto biblica quanto livida “In this age of blasting trumpets, Paradise for fools (…) I don’t want to hear those vile trumpets anymore”.
In “Here is a thing” il confine tra Casey ed altri maestri del cantato-parlato come Nick Cave diventa labilissimo. In un pezzo che è una linea di basso esaltata da qualche intermezzo elettrico, c’è il racconto del risveglio dopo un lungo sonno di una persona che si ritrova in un paese scostumato tra “Old billionaire dead, buried in his hair shirt” e “New face loves surveillance, comic sans, parroting an ape”.
In un album che indaga spietato sul privato dell’uomo, pezzi come “My children” sono un tondo perfetto di senso e resa con quelle aperture e crescendo alla Wire da manuale. Il pezzo è una elaborazione sulla paternità – immaginata più che reale – un flusso di coscienza su ciò che manca e che probabilmente non accadrà. Il sogno di una paternità mitologica che passa da “My children, Ain’t got no mother, Came from my temple, all, when I thought them” per diventare più autentica e spietata di qualunque fantasia “My children, They are the future, Good luck with the mess I left”.
Relatives in Descent è quindi per i Protomartyr l’album in cui scendono a patti con la melodia e lo fanno con due tra i momenti più emblematici di questo ascolto, “The chuckler” e “Don’t go to Anacita”, quest’ultimo è quello che definiremmo un brano perfetto, costruito per durare e far breccia. Anacita è identica a milioni di città e a nessuna veramente, una sorta di Pleasantville dei nostri giorni da cui è meglio stare alla larga, popolata da riconoscibili “liberal-minded (…) They close their eyes and dream of technology and kombucha”.
Giunti alla fine, recuperando il chorus del pezzo d’apertura con quel “She’s trying to reach you” martellante che c’ha tenuto col fiato sospeso per tutto l’album, “Half sister” ci rivela infine chi sia questa presenza così familiare. Si tratta della verità, una sorellastra ambigua che non perdona proprio perché a portata di mano.
Quello che resta dell’ascolto di Relatives in Descent è un’illusione – quella per cui un lavoro così denso di citazioni e rimandi dovrebbe trovare il suo riconoscimento da parte di ben altre platee – presenti ed attente. Eppure se da un lato la voce di Casey ti scava dentro e ti manda in palla il parco neuronale, dall’altro però quella premonizione di disagio forse necessita proprio di quel bar, di quel pubblico involontario e di quel torpore dolente di una fredda serata di fine marzo.