NFO best of 2021

AOTY_2021

Riprendendo la tradizione avviata nel 2020, ecco a voi una breve lista dei migliori dischi del 2021 (in nessun ordine particolare) selezionati per voi dallo staff di NFO Radio.

Augurandoci altri splendidi ascolti per il 2022!


The Notwist – Vertigo days

Il 2021 ha portato un nuovo disco dei The Notwist, a 7 anni dal precedente. Vertigo Days, strutturato quasi come un mixtape, risulta un vero e proprio collage sonoro, dove sonorità tipiche al gruppo tedesco si mescolano con nuove influenze: tribali, con molte percussioni, più jazzy o anche dal sapore asiatico (come “Ship” cantata da Saya Ueno in giapponese). Molte le collaborazioni, ma resta dominante il loro sound elettronico caratterizzato da sintetizzatori e dalla voce velata di Markus Acher. Ma sono gli ospiti e le novità sonore che creano lo spazio per un racconto corale più ampio. La band bavarese riesce anche a dare un taglio politico in Vertigo Days, con chiare descrizioni del mondo che ci circonda negli ultimi anni. In “Oh Sweet Fire”, per esempio, il jazzista Ben LaMar Gay parla delle manifestazioni Black Live Matters dal punto di vista di chi vi ha partecipato. Il disco nasce durante la pandemia del 2020, quando abbiamo imparato che molte sicurezze possono cadere, come all’inizio di “Into Love/Stars”: “Now that you know the stars ain’t fixed / the roads ain’t straight / now that the sky can fall on us.” Un album complesso che ha dalla sua il cogliere a pieno lo zeitgeist e i cambiamenti che ne conseguono. E così, anche i Notwist cambiano, restando pur sempre fedeli a loro stessi. In una traccia: “Into the ice age”. (Giordana Marsilio)


Marta del Grandi – Until we fossilize

Ci sono i dischi che uno aspetta, e che spesso non arrivano; e poi dischi che non si sapeva di aspettare. Until we fossilize, il debutto di Marta del Grandi, non era previsto in nessuno scenario che avessi potuto immaginare per questa nuova lunga annata pandemica. Non c’è spazio qui e ora (e comunque, spesso, non serve) per offrire una qualche premessa, magari una breve nota biografica; e non trovo lo spazio nemmeno per dilungarmi e provare ad inserirla all’interno di un qualsivoglia contesto musicale. Questo disco, con i suoi nemmeno 30 minuti in 8 tracce, si fa prima ad ascoltarlo (che a parlarne) e farsi convincere sin dalle sue prime battute. Se Joanna Newsom mettesse da parte i vezzi barocchi e provasse a scrivere pezzi per Björk, forse verrebbe fuori qualcosa di simile a quello che offre questo disco. Chitarre, archi, field-recordings, tastiere, avvolgono la sua limpida voce insieme a tante altre finiture sonore distribuite in maniera organica in ognuna delle tracce. Non una sbavatura, non un eccesso. La bravura di Marta del Grandi è una profezia che si auto-avvera man mano che si percorrono le tracce di questo debutto. Note di tranquillità dalla prima all’ultima. In una traccia: “Amethyst”. (Andrea Firrincieli)


Shame – Drunk Tank Pink

Dopo aver conquistato pubblico e critica con il loro primo disco, l’anno che volge al termine ha visto tornare all’opera gli Shame con la loro seconda fatica Drunk Tank Pink. Il titolo dell’album cita una tonalità di rosa usata per calmare atteggiamenti aggressivi e ostili in ambito militare, ma la sequenza di brani non ha alcuna intenzione di mettere l’ascoltatore a suo agio. Tutt’altro: il giovane quintetto londinese torna a colpire forte con la sua commistione di distorsioni incrociate, riff rapidissimi e ritmiche millimetriche. La voce sprezzante di Charlie Steen canta e urla di frustrazione e disillusione, ma anche di solitudine e profondo intimismo. Linee melodiche e muri sonori si susseguono netti ed eleganti, tradendo grande cura nella produzione e una spiccata maturità compositiva anche rispetto al già ottimo debutto della band. Drunk Tank Pink ignora le etichette e sfugge dalle definizioni di genere più semplicistiche: è una scarica di cruda energia, dalla prima all’ultima canzone. In una traccia: “Born in Luton”. (Graziano D’Anna)


David Christian & the Pinecone Orchestra – For those we met on the way

È il ritmo di un metronomo quello che scandisce il tempo della memoria nell’ultimo album di David Christian. Il nuovo progetto musicale vede la luce a quasi vent’anni dai Comet Gain, nati nel 1992 da quel crogiolo di pop e soul filtrato dalla psichedelia dei ‘60, sporcato dal punk e dal garage rock dei ‘70 e che in Inghilterra approda al northern soul alla Jam, Style Council e Dexys. 12 tracce ripercorrono con dolci chitarre, arrangiamenti semplici e suoni legnosi la memoria del tempo in cui incontrammo luoghi ed emozioni la cui scintilla è una persona o un progetto di esistenza. Le voci femminili che accompagnano in controcanto quella di Christian, chiara e profonda, spostano su due dimensioni quei momenti. L’album va dritto al punto. Sin da “In my hermit house” il suono è chiaro e lineare, nel basso e nella batteria, malinconico nelle voci e dalle tinte sbiadite. Riavvolge con delicatezza il nastro della pellicola personale, anche laddove i graffi e le smarginature sono indelebili e le amarezze sono il debito per progetti abortiti, sentimenti ammutoliti dalle indifferenze e dai pedaggi altrui che prevalgono sulla dolcezza del ricordo. Ma “c’è qualcosa che ho bisogno di dirti”, canta Christian in “Sweethearts”. È questo il momento più testardo dell’album della nostra vita. In una traccia: “Sweethearts”. (Laura Birgillito)


Wolf Alice – Blue Weekend

Blue Weekend, il terzo album dei Wolf Alice, selezionato per il Mercury Prize e amato sia dai fan che dalla critica, è uno dei migliori album indie rock non solo del 2021 ma degli ultimi anni. I Wolf Alice riescono a colpire nel segno una terza volta grazie alla loro formula vincente: Blue Weekend inizia con una sorprendentemente eterea “The Beach”, che acquista uno slancio un po’ progressive man mano che procede. “Delicious Things” ne segue l’esempio e sorprende con i suoi arrangiamenti acustici e gli archi tremanti. Quando ascolti i ritornelli in “Feeling Myself” e “No Hard Feelings”, una domanda sorge spontanea: i Wolf Alice si sono addolciti? Prima ancora che questa domanda possa essere formulata nella nostra mente, ecco che il quartetto britannico ci ricorda che no, non hanno rinunciato al proprio sound a metà tra il grunge e lo shoegaze. Ne sono la prova brani come “Lipstick On The Grass”, “Smile” e “Play The Greatest Hits”, piccola gemma esplosiva di questo disco. Questi momenti elettrici riescono a convivere con l’ampia tavolozza musicale proposta dalla band grazie a brani pop – e irresistibili – come “Safe From Heartbreak (If You Never Fall In Love)” e “The Last Man On Earth”. I Wolf Alice non hanno paura di mostrare le loro grandi ambizioni mischiando indie rock, grunge, shoegaze e synthpop romantico. Possiamo definirlo il disco più eclettico della band britannica, vario e intenso, mantiene un filo conduttore di esplosioni sonore che meritano la loro giusta dose di attenzione. In una traccia: “Delicious things” (Claudia Patti).


BADBADNOTGOOD – Talk Memory

Il 2021 è stato come rimetter in moto un auto tenuta ferma a lungo, cristallizzato in quel breve istante in cui il calore sommerge l’abitacolo mentre ripassiamo la liturgia del partire. Alla radio chiediamo solo qualcosa che ci convinca ad uscire dal vialetto, che sciolga il torpore dei movimenti. Questo e ben altro lo intercettiamo nelle frequenze dei BADBADNOTGOOD che con Talk Memory ci conducono in un viaggio a ritroso nel tempo a 5 anni dal loro eclettico IV. Le sperimentazioni degli anni del college a Toronto e i mash-up tra alt-jazz e modern-hip-hop che hanno fatto girar la testa a gente come Kendrick LamarTyler, The Creator hanno dato loro popolarità e qualche malumore. Con Talk Memory e l’abbandono di Tavares, in una formazione a tre danno sfoggio della loro tempra di musicisti, scomponendo sonorità jazz classiche per ricostruirle in un mix di psichedelia, transizioni aeree e crescendo cinematografici. Cha facciano sul serio lo percepiscono anche i vari ospiti che costellano l’album: da Floating Points che confeziona l’intro urban al pezzo d’apertura fino al leggendario Arthur Verocai che incendia almeno tre pezzi con sapienti incursioni nel funk e nella bossa. In questa scorribanda organizzata dai BBNG nell’immaginario jazz c’è spazio anche per chi ha rinunciato da tempo a mete prefissate ed è pronto a farsi trascinare in un posto in cui il magico è rassicurante. In una traccia: “Beside April” (Mirella D’Agnano)


Sóley – Mother Melancholia

Come suona la fine del mondo? Tra le uscite discografiche dell’anno di Dante, non esiste selva più oscura di Mother Melancholia. Sóley, cantautrice e polistrumentista islandese (Seabear, Sin Fang), anche nei passaggi più primaverili del suo songwriting aveva abituato il suo pubblico ad un manto di malinconico mistero (Endless Summer, 2017). Con questo suo quarto album ritorna ad atmosfere decisamente più surreali, oscure ed introspettive. L’unica luce che contrasta le tenebre è la voce di Sóley, sebbene fioca come quella di un canto sussurrato. L’intenzione dichiarata nei credits è quella di raccontare il “suicidio di massa dell’umanità e la distruzione della vita guidata dal capitalismo e dalla mascolinità tossica”. Quella sottile linea che collega il sessismo e la sopraffazione dell’uomo sulla natura all’innesco della nostra distruzione ventura. “Away back mother / You told me to honour the earth / But every day / I dig my own grave / And as i dive in you’ll / Hold my hand / (Sundown)”. L’apertura di “Sunrise Skulls”,  coi suoi quasi 8 minuti, rappresenta una summa delle migliori caratteristiche compositive di Sóley. Tuttavia Mother Melancholia è un crescendo sconvolgente di intensità emotiva e va assaporato nella sua totalità. Disclaimer: lieto fine non pervenuto. In una traccia: “Sunrise Skulls”. (Andrea Greco)


Baiuca – Embruxo

Alejandro Guillán, ha un obiettivo chiaro: che la tradizione di Galizia arrivi ai giovani. E le tradizioni si modernizzano, così come sta cercando di fare Alejandro, in arte Baiuca, originario di un paese della provincia di Pontevedra. Il suo secondo album, Embruxo, è un lavoro molto più maturo del debutto (Solpor del 2018). I suoni elettronici sono più raffinati, creati ed elaborati in studio. Nel disco c’è tutto il misticismo di una terra “alla fine del mondo”, una celebrazione della cultura e della lingua galiziana. Non mancano riferimenti alle bruxas, le streghe buone, e alle meigas, le streghe cattive, due figure del folclore locale. In pezzi come “Conxuro”, troviamo il tradizionale canto acuto e prolungato chiamato aturuxo e ballare al passo della danza popolare della muñeira. La parola galiziana che forse più di tutte può descrivere la bellezza di questa lingua è morriña, ovvero la nostalgia che si sente quando si è in una terra lontana da quella che ci ha visto crescere. Sentimento che forse Baiuca conosce bene dato che da molti anni non vive più in Galizia. Quello che è certo, è che la sua musica è un vero e proprio veleno. In una traccia: “Veleno”. (Mattia Marello) 

Autore

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *