Luke Haines – Das Capital
Luke Haines è genio e sregolatezza. Con il disco “New Wave” inventa il brit-pop e lo disconosce nelle successive evoluzioni. Interpreta le contraddizioni che si insinuano tra i cambiamenti sociali, canta il cinismo della Upper Class e il tradimento delle sinistre alla gente che lavora in “How to hate the working classes”.
È convinto che l’arte e la conoscenza salveranno il mondo, eppure è il protagonista di mille vite, dilaniate dalle dinamiche di produzione del valore come quelle di ogni salariato. Sarà lui a dare vita ai progetti degli Auteurs e di Baader Meinhof, i cui brani troviamo in Das Capital del 2003, riarrangiati e affiancati da alcuni inediti.
Il progetto di Das Capital è mettere piede nell’Inferno di Marx e non trovare vie d’uscita. È un camminare incalzante sui carboni ardenti delle relazioni di produzione e dei drammi personali e politici nel capitalismo; è parlare di e ad ogni anima persa della forza lavoro e far parlare il cinismo delle relazioni che ne condizionano tutta la vita.
Das Capital è uno spaccato della povera gente che per tirare a campare non ha altra scelta che consegnare al capitale – e al suo rovescio, il lavoro – il proprio tempo. È la narrazione in musica della condanna che il salariato sconta dalla nascita alla morte sulle sue relazioni personali e sui tempi della sua vita, scanditi e misurati sin dall’inizio dal trituratore produttore di valore.
Il disco ha un’atmosfera solenne, a tratti cupa, avvolgente e malinconica, mai accondiscendente, ma con una linea ben chiara: tutti i pezzi sono arrangiati con l’orchestra con il protagonismo degli acuti volteggi dei violini. La intro è un magnifico rassemblement di vecchi pezzi degli Auteurs; è poetica, possente e terribilmente onesta. È un’ammonizione a lasciar perdere speranze, ma anche un doloroso sforzo di comprensione dell’uomo e della sua misera dignitosa condizione schiacciata da rapporti sociali imposti al di sopra di lui.
“Come avrei potuto sbagliarmi?” – si domanda il capitalista che nuota nell’oceano: “un pianificatore di piani/Un ladro di anime/Le stelle sono più luminose/Sono più leggere di quanto lo siano state per anni”. Cosa si nasconda dietro quelle dinamiche di produzione del valore, ormai fuori controllo, lo scopriamo a seguire: i condizionamenti sociali, nel ritmo incalzante di “Satana wants me” – “Satana mi vuole per la mia mente/Sposare sua figlia, avere un figlio/Per condurre una vita tranquilla”– ; omicidi in “Unsolved Child Murder”; povertà e consumo a basso costo in “Junk shop clothes” – “I vestiti del negozio spazzatura/Non ti porteranno da nessuna parte. Sono fuori stagione/C’è una ragione per cui tua madre era una sarta”.
Nell’oceano delle speranze interrotte “Showgirl” è una “fantasia glitterata da stracci di un viaggio in treno da Guildford a Waterloo. Un’altra vignetta glamour sbiadita di un perdente che sposa un’attrice di bassa leva”, racconta Haines. La linea di basso è esaltata dai toni acuti della tastiera e da una chitarra grunge di sottofondo.
Si inserisce così “Baader Meinhof”, dall’omonimo disco del ‘96, che racconta del progetto armato per sovvertire lo status quo: “Rudi ha detto che dobbiamo diventare saggi/E dobbiamo armarci”. Tuttavia, “gli assassini all’angolo hanno cercato di tirare una corda di salvezza” a “Lenny Valentino”, il pezzo centrale dell’album, dove l’orchestra e le chitarre elettriche fanno da protagoniste su una voce che ossessivamente ripete “Valentino resides”.
Il ventesimo secolo era appena cominciato.