Low – Things We Lost In The Fire
Occorre muoversi in punta di piedi e a lume di candela per festeggiare il ventesimo compleanno di Things We Lost In The Fire dei Low. I coniugi Alan Sparhawk e Mimi Parker, supportati dal basso di Zak Sally, si sono sempre contraddistinti per le loro atmosfere rarefatte, sognanti e malinconiche.
Da bravi concittadini di Bob Dylan lo hanno fatto mantenendo l’intensità ed il piglio poetico del grande songwriting americano, discostandosi da ogni tipo di stereotipo. La voglia di andare oltre la semplice etichetta di band di punta dello slowcore, per dei musicisti talmente, ma talmente calmi da essere notati, è stato un processo cominciato subito dopo l’uscita del folgorante I Could Live In Hope (1994) e portato a compimento sette anni più tardi.
In Things We Lost In The Fire il trio di Duluth, Minnesota, riesce a confezionare canzoni calde, a volte trascendenti, ma sorprendentemente pop. Parte del merito spetta sicuramente ad una produzione impeccabile che fornisce un’ampia varietà di colori ad una classica band con basso, chitarra e batteria. Questo compito è affidato ad un insolito Steve Albini (Pixies, Nirvana, PJ Harvey), noto per la formidabile capacità di tirare fuori in modo estremamente fedele il sound live delle band. Il risultato è un suono elegante e minimale, talvolta arricchito dagli archi o dalle note di tastiera che aggiungono un’ulteriore componente emozionale. La scrittura è sicuramente enigmatica, ma risulta in ogni sua parte affascinante e suggestiva. L’oscurità più cupa viene sempre bilanciata dall’intreccio vocale di Mimi Parker ed Alan Sparhawk.
Questo magnetico contrasto è evidente già in Sunflower, la traccia di apertura. Un ritornello orecchiabile, in apparenza quasi spensierato (“Sweet, sweet, sweet / Sweet sunflowers”), fa da contraltare alla follia nazista dell’Olocausto. Il probabile riferimento letterario è “Il girasole”, trattato filosofico di Simon Wiesenthal. Sopravvissuto all’olocausto, l’autore di origine ebraica si trovò al cospetto di una giovane SS morente, pentita per aver ucciso brutalmente centinaia di ebrei inermi, ma gli rifiutò il perdono. L’atmosfera si fa più spettrale con Whitetail, degna del terrificante piano sequenza in slow motion di Kubrick in Shining, quando un fiume di sangue fuoriesce dall’ascensore dell’Overlook Hotel.
Dinosaur Act, definita da Stuart Braithwaite dei Mogwai l’opera di un genio, è per armonia e intensità il singolo naturale. Il basso di Sally si fa più grave per dare profondità alla struttura sonora, che viene accompagnata dalla tromba verso un crescendo trionfale. Delle raffinate distorsioni, impreziosite da un violino e da una tastiera appena sfiorata, rendono July uno dei momenti più intensi. La tensione dolce di un’attesa e l’amarezza Beckettiana della futilità della stessa.
“Maybe we’ll wait ‘til July
Then August, September
October, November or December”
Infine, non deve stupire se alcuni brani come Like A Forest suonino come una preghiera, perché forse effettivamente lo sono. Sparhawk e Parker sono fortemente credenti e la loro spiritualità non può che emergere nell’universo emotivo della loro arte, espressa con delicatezza, grazia e bellezza minimalista.