Bruce Springsteen – Nebraska

Bruce Springsteen è all’apice del successo. Nel 1975 conquista tutte le radio con Born to Run, la sua fama diventa mondiale.

Solo un anno prima, il celebre critico musicale Jon Landau lo aveva consacrato con queste parole: «Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen». Infatti.
Il fiume della creatività di Bruce è in piena e nel 1980 sforna il doppio album The River. Altre (meritate) lodi, altro successo. La critica lo adora, il pubblico lo acclama.

Per un artista, la naturale conseguenza di questa ascesa sarebbe mantenere il ritmo, piantare bene i piedi su quella frequenza che, come si è visto, funziona e continuare a strizzare l’occhio alle classifiche.
Ma Springsteen rallenta. Smette di correre. Cambia completamente frequenza.I riflettori e gli abiti da rockstar iniziano a stargli stretti, così si rifugia in se stesso e nel suo New Jersey, con una chitarra acustica, un’armonica e poco altro. Registra alcune canzoni con un semplice multitraccia portatile a quattro piste (4-track Multi-track), in completa solitudine. E con quel multitraccia ci consegna un altro capolavoro.

Nebraska è, per chi scrive, il punto più alto mai raggiunto da Bruce Springsteen in tutta la sua carriera. Non solo per la scelta tanto folle quanto saggia di abbandonare la cresta dell’onda per rispolverare e riscoprire le proprie origini, ma anche per la sincerità e la purezza con cui ha intrapreso questo percorso di una bellezza rara e straordinaria.

L’atmosfera che il Boss riesce a creare fin dalle prime note – anzi, fin dalla copertina – evoca una giornata di gelo (anche e soprattutto esistenziale), nebbiosa, riscaldata solo dal focolare attorno al quale siamo tutti seduti ad ascoltarlo. Il taglio intimistico è evidente già nella prima traccia, Nebraska, che non a caso dà anche il titolo all’intero album. Entrando in punta di piedi nella bolla che protegge Bruce dal resto del mondo, ascoltiamo storie di malinconia, di sconfitta, di umiltà. Il cantautore abbandona le illusioni del Sogno Americano e torna ancora una volta a essere il megafono che amplifica e dà voce agli ultimi, ai reietti.

Contagiato dalla penna di John Steinbeck e dallo storytelling di Bob Dylan, il Boss si cala nel ruolo del narratore, raccontando in chiave folk – talvolta “sporcato” da qualche sprazzo di country (Open All Night) o di blues (State Trooper) – storie esistenzialiste, in cui l’individuo con le sue debolezze è nucleo e perno fondamentale. Emblematica in tal senso la storia di un uomo condannato per omicidio in Johnny 99, o quella di un poliziotto diviso tra il dovere e la salvezza del proprio fratello, in Highway Patrolman. Tante fragili esistenze macchiate dalla violenza, destinate alla perdizione, ma che Fabrizio De André non avrebbe esitato a definire “anime salve”.

Il leitmotiv che dona coerenza e unicità all’album è dunque un paradosso: considerare la fragilità come una forza. Una forza che spinge ciascuna delle anime salve springsteeniane a stagliarsi contro la società e le autorità, in tutta la loro debolezza, in tutta la loro bellezza intrinseca.

Springsteen sa bene che l’essenza di quella forza non può che essere tradotta in musica con semplicità (laddove il concetto di semplicità non ha nulla a che vedere con quello di banalità), senza inutili fronzoli o ridondanti virtuosismi. Da qui il suono crudo e scarno, ma altrettanto efficace e tagliente.

La sensibilità da brividi di Bruce tocca l’apice con My Father’s House, in cui il rimpianto di un rapporto ormai consumato – evidente punto debole del cantautore – è tanto struggente da commuovere. È così che Springsteen giunge all’ultima canzone: stremato e ferito. Forse è proprio per questo che decide di intitolarla Reason to Believe: ha anch’egli bisogno di ritrovare la speranza, o anche solo qualcosa in cui credere, prima che il freddo gli entri nelle ossa fino a consumarlo.

Questo (a mio parere insuperato) esempio di integrità artistica, di profonda introspezione e di sconfinata sensibilità, è uno dei tanti motivi per cui Bruce Springsteen rimane e rimarrà sempre The Boss.

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