Agalloch – Pale Folklore
Gli Agalloch non ci sono più.
Hanno lasciato come testamento alle nostre orecchie cinque album e numerosi EP, densissimi e profondamente caratterizzati, con i sussurri del factotum John Haughm a guidarci attraverso selvaggi boschi spazzati dal vento e valli rocciose cariche di neve e di ineluttabilità.
Ben si adatta questo Pale Folklore a chi vuole un album passionale e malinconico, che sappia di novembre, di immense lande scandinave, di amori delusi.
Correva l’anno 1999, il mondo si preparava nuovamente alla fine della vita sulla terra, al Millenium Bug, a chissà quale rivoluzione; i Dream Theater avevano appena finito di registrare Metropolis Pt. 2, e intanto a Portland nell’Oregon, il trio composto da un’appena ventiquattrenne John Haughm e dai suoi coetanei Don Anderson e Jason William Walton ci regalava uno degli album più evocativi che si sarebbero potuti ascoltare negli anni a venire.
Categorizzare entro un unico genere Pale Folklore, così come gli stessi Agalloch, è difficile e finanche errato. Ritengo più corretto dire che vi si possono trovare influenze e sonorità tipiche dell’atmospheric folk, del doom metal, dell post-rock. Se vi siete mai persi nelle melodie di Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler degli Ulver, o dei primi Katatonia, riconoscerete un’aria da metal scandinavo tipico della prima metà degli anni ’90. Nei virtuosi album a seguire, grandi protagoniste saranno invece le influenze neo-folk, ma questa è un’altra storia.
Ciò che intriga di questo Pale Folklore è il fatto che sembri essere composto da un’unica grande traccia, tanto le singole sono collegate l’una con l’altra, e come tale va ascoltato, dall’inizio alla fine, perché la singola parte pur potendo vivere da sola, sarebbe decontestualizzata. Sedetevi comodi sulla la vostra poltrona o divano, chiudete gli occhi, e nei 60 minuti di questo album viaggiate verso luoghi che anche se non avete mai visto, vi appariranno come in sogno.
Il viaggio comincia con la suite in tre parti di She Painted Fire Across The Skyline, 19 minuti che gli Agalloch piazzano proprio lì, all’inizio del loro primo album, come se già fossero più che abituati ad un songrwriting tanto corposo. Con The Misshapen Steed il vostro duro cuore da adulto disilluso dalla vita si infrangerà e comincerete a piangere come bambini, grazie a malinconiche vette strumentali degne dei migliori Ashram (avete presente Maria and the violin string?).
Hallways of Enchanted Ebony riprende il tema della trilogia iniziale, in particolare della seconda traccia, dando uno scossone all’ascoltatore con un’improvvisa accelerazione, mai eccessiva, per poi rigettarlo nuovamente in un bosco sferzato dal vento circondato da un branco di lupi e cani rabbiosi. Dead Winter Days è forse la traccia di questo album che più rappresenta gli Agalloch. Se dovessi parlare di loro a qualcuno che non li conosce, gli direi di ascoltare questo pezzo, che riassume in se tutti i molteplici aspetti dei nostri virtuosi. Se dovessi scegliere la mia traccia preferita, sarebbe la successiva As Embers Dress the Sky, melodiosa, trascinante, e con la bella (e ignota) voce operistica della allora compagna di Don Anderson ad accompagnarci lungo la strada, a conclusione della quale troviamo The Melancholy Spirit, un altro sontuoso pezzo da oltre 12 minuti che va a chiudere il cerchio iniziato dalla trilogia iniziale, producendo un’esperienza sensoriale vivida, con il suo evolversi e i suoi crescendo, per poi riportare tutto alla calma.
Amici di NFO, amanti della buona musica, metallari con fili d’argento nella barba ma dal cuore ancora tenero, se questo album non è ancora entrato nelle sale della vostra mente, fatevi un favore e immergetevi per intero, lasciando fuori solo il naso per respirare. Alla fine inevitabilmente ne verrete sommersi, ma sarà un’esperienza mistica.